Di Maria Luisa Abate. Mantova, Teatro Sociale. La locandiera di Latella: più o meno innovativa rispetto a Goldoni?
Un capolavoro del Teatro e una Compagnia di prim’ordine. Le premesse per il successo c’erano tutte e difatti “La locandiera” sta registrando una serie di sold-out nelle date della sua lunga tournée, tra cui quella al Teatro Sociale di Mantova. Dove, va detto a onor di cronaca, sarebbe stato gradito un riscaldamento consono alla stagione invernale. Indossando cappotti e piumini, il pubblico ha espresso giudizi contrastanti, in linea con la critica nazionale divisasi nettamente: uno spettacolo esecrato oppure osannato, senza vie di mezzo. Personalmente riteniamo che proprio nel mezzo stia, come sempre, il giusto.
Un fatto acclarato, e non necessariamente negativo, è che la visione registica sia stata autoreferenziale. Stimolante, per quanto da manuale, è stato l’assunto da cui il regista Antonio Latella è partito: Goldoni, si sa, è stato un innovatore e le sue tematiche risultano tuttora attuali. In particolare il vento di rinnovamento è spirato su “La locandiera”, in cui il grande scrittore settecentesco ha abbandonato la tradizione delle Maschere della commedia dell’Arte per virare verso la commedia dei caratteri. E lo ha fatto eleggendo a protagonista una donna (nel Settecento!) scaltra e capace di rigirare gli uomini come calzini. Una figura avanguardistica figlia di un’epoca segnata dall’intraprendenza della nuova borghesia in grado di soppiantare l’opportunismo profittatore della vecchia aristocrazia. Conseguentemente Latella, unitamente al dramaturg Linda Dalisi, si è focalizzato sulla natura emancipata di Mirandolina, facendone una femminista ante litteram, amplificandone i tratti relativi alla capacità decisionale, al pensiero autonomo, alle doti imprenditoriali.
In questa produzione targata Teatro Stabile dell’Umbria, il regista avvalendosi tra l’altro dei costumi di Graziella Pepe, ha reso visibile il processo goldoniano di “sganciamento” dai tradizionali legami mentali imposti dalla società maschilista dell’epoca. La locandiera di Latella – la splendida Sonia Bergamasco – dapprima si è presentata semi svestita in un camicione bianco e progressivamente, di pari passo con il progredire dell’acquisita consapevolezza e della sua emancipazione, ha aggiunto elementi al proprio abbigliamento. Inizialmente a piedi nudi, ha poi indossato per buona parte dello spettacolo degli stivaletti con due tacchi (per intenderci come i “geta”, gli zoccoli giapponesi, ma anche come alcune calzature italiane del settecento) che hanno sollevato fisicamente dal contesto Mirandolina, la quale sul finire della commedia si è tolta i calzari ritornando così metaforicamente e letteralmente con i piedi per terra. Tra i molti, un altro esempio di abbigliamento funzionale al disegno registico ha riguardato il cappotto del Cavaliere, dalla donna usato come una rassicurante “coperta di Linus” fino a metterlo nel forno, ossia nel suo cuore, come stiamo per spiegare.
La scena di Annelisa Zaccheria ha previsto una grande parete in legno chiaro con dei fregi a cornice, come quadri vuoti le cui tele ancora dovevano essere dipinte. Al centro i tavolini degli avventori della locanda, con sedie di plastica intrecciata come andavano di moda negli anni 60-70 del Novecento, mentre sulla destra la modernissima cucina inox sulla quale l’attrice ha davvero cucinato una zuppa il cui profumo si è sprigionato in platea, in un momento di teatro olfattivo (che alla incanutita scrivente ha ricordato i bei tempi in cui dietro le quinte del Sociale le maestranze tecniche si facevano per davvero una spaghettata). La casseruola era di colore rosso, forse a rappresentare il “cuore” della locanda, paragonabile a un odierno B&B di cui Mirandolina era abile imprenditrice. Anche Latella quindi ha assegnato alla donna il posto ai fornelli, però lo ha fatto bene: mentre la chef si metteva al servizio degli avventori, sconfiggeva l’universo maschile, soppesando, come fossero ingredienti da mettere nella zuppa, le emotività dei suoi pretendenti.
Protagonista era l’intensa Sonia Bergamasco, in una recitazione volutamente, studiatamente, espressivamente incolore. Una Mirandolina perfettamente integrata nella concezione registica, spesso chiusa nei propri pensieri, enigmatica, ombrosa, spigolosa, a tratti magistralmente antipatica indi capace di abbandonarsi a una schietta per quanto breve risata, libera ed emancipata nei modi in cui trattava gli avventori / pretendenti. Nulla a che vedere con la maliziosa gaia civetteria della figura immaginata da Goldoni: la Mirandolina secondo Latella non era spiritosamente arguta ma freddamente raziocinante, calcolatrice, attenta alla gestione della sua azienda come degli affari di cuore.
Più vicini a Goldoni gli altri personaggi, tutti ben caratterizzati dai rispettivi interpreti: Giovanni Franzoni il Marchese di Forlipopoli e Francesco Manetti il Conte di Albafiorita, il primo un nobile decaduto, il secondo un mercante arricchitosi. Poi Ludovico Fededegni il Cavaliere di Ripafratta, un misogino che Mirandolina farà innamorare di sé più per puntiglio che per reale interesse. Inoltre le due attrici commedianti che si fingono nobili salvo non averne i modi, Marta Cortellazzo Wiel Ortensia e Marta Pizzigallo Dejanira, per le quali la regia ha compiuto un balzo a ritroso nell’ambito delle marcate accentuazioni tipiche delle maschere della commedia dell’arte, sia pure attualizzate: pensiamo alla inflazionata, ritrita citazione della celebre scena finto-orgasmica del film “Harry ti presento Sally”. Non ultimi, il Servitore Gabriele Pestilli e Annibale Pavone, il cameriere Fabrizio, che Mirandolina sceglierà di sposare. Resta il dubbio se con atto davvero libero visto che ha sì scartato i pretendenti ricchi e nobili, però ha assecondato la volontà del padre scegliendo la via del matrimonio per interesse della locanda.
L’idea di Latella si è rivelata senza ombra di dubbio valida e validamente è stata portata in scena. Siamo certi che lo stesso Goldoni avrebbe apprezzato questo omaggio alla sua lungimiranza di vedute. Tuttavia il regista ha preso il sopravvento sull’autore, e senza osare fino in fondo. Ci riferiamo al finale, dove ci saremmo aspettati un colpo di scena in linea con cotanto costrutto femminista.
Ciò che ci ha colpiti negativamente è stata l’assenza di quella gioiosità, di quella leggerezza, di quella luminosità che caratterizzano Goldoni, capace di affrontare argomenti seri con levità e immediatezza. Latella invece si è mosso su binari concettuali, profondi, non privi di cupezze introspettive, poco luminosi. E non ci riferiamo solo alle fredde luci al neon di Simone De Angelis che hanno ronzato inquietanti a sottolineare taluni cortocircuiti narrativi, o alle musiche multitasking di Franco Visioli.
Un altro aspetto che si è perso per strada è stato il ritmo scenico. Tanto brioso e allegro in Goldoni, quanto statico in Latella, che ha spesso collocato seduti i suoi attori. Il regista ha fatto bene a spazzare via con un colpo di spugna il solito gioco della seduzione civettuola generalmente attribuita alla protagonista, ma è sembrato avere ignorato che la profondità tematica non è detto che debba ammantarsi di toni cupi, di seriosità tout court, come proprio Goldoni ci insegna magistralmente.
Tirando le somme, un Goldoni poco goldoniano e molto latelliano. In scena, baci di ogni tipo ma l’amore è altro. Latella per sua stessa premessa ha tramutato la commedia in un manifesto di teatro civile, ossessivamente impegnato. Ribellandosi alle ovvietà rappresentative del passato, il regista è caduto nella rete di un altro tipo di ovvietà contemporanea: l’obbligo revisionistico. Ci si chiede dunque: è stato vero rinnovamento o anche la ri-scrittura è oggigiorno atto routinario e sorpassato? Non vogliamo rispondere. Ogni spettatore si è fatto una propria opinione. E fino a quando il pubblico rimarrà libero di elaborare in chiave personale quanto visto, il Teatro avrà assolto alla sua indispensabile funzione di stimolare positivamente le menti.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Sociale di Mantova per la stagione di prosa della Fondazione Artioli, il 26 novembre 2024
Foto: Gianluca Pantaleo
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