Di Maria Luisa Abate. Mantova: Ambra Angiolini non interpreta ma “è” Il personaggio del romanzo di Viola Ardone, la prima donna che disse no al matrimonio riparatore.
Cosa dire di uno spettacolo pressoché perfetto? Nulla, sarebbe d’uopo, se non consigliare di andarlo a vedere in una delle prossime tappe della tournée per lasciarsi travolgere dal turbine di emozioni contrastanti che suscita, dall’indignazione allo sgomento, dal turbamento alla consapevolezza, dal riscatto alla liberazione, dalla crudeltà alla dolcezza infine alla poesia. Siamo convinti che qualsiasi commento elogiativo, anche da parte di penne più prestigiose della nostra, sia riduttivo, sia appannante per quelle inquietudini che comunica la regia, e per quel magnetismo che sprigiona l’attrice nella sua recitazione intensa, vissuta in simbiosi col personaggio. Pensiamo che le parole scritte tarpino quell’immedesimazione sotto pelle che ciascuno spettatore vive in sala. Ma questo a noi spetta fare.
Il titolo è un nome di donna, “Oliva Denaro”, un’adolescente non particolarmente bella, dagli occhi neri come due olive. Ed è anche l’anagramma di Viola Ardone, l’autrice del romanzo (Einaudi) da cui è tratta la piéce teatrale: un monologo, genere di per sé difficile da gestire facendogli mantenere vividezza dalla prima all’ultima parola. Vividezza che qui è stata splendida costante, giostrata tra sorriso e commozione, tra profondità di significato e leggerezza di esposizione.
Giorgio Gallione è un regista di prim’ordine e Ambra Angiolini ha ormai comprovato da tempo di essere una grande attrice (basta, per favore, ricordarne sempre gli esordi, peraltro onorevoli: chiunque ha mosso i primi passi come e dove la sorte lo ha portato. Ambra è da molti anni un’attrice teatrale e cinematografica di grande spessore ed è giusto tributarle esclusivamente stima e considerazione). A quattro mani hanno curato la drammaturgia instaurando una sinergia ottimale, tanto che è stato pressoché impossibile distinguere dove arrivasse la mano dell’uno e dove iniziasse quella dell’altra.
Un monologo in cui la protagonista, a tu per tu con se stessa, non è di fatto mai stata sola tanta è stata la capacità – registica – di materializzare intangibilmente altre figure, e tanta è stata l’abilità – attoriale – di interagire concretamente con le immaginarie presenze. Evocate in scena grazie alle eccellenti doti interpretative dell’attrice romana che ha dato ad Oliva la cadenza tipica siciliana oltre a una vasta gamma di colori timbrici nel differenziare i personaggi che hanno costellato il suo flusso di ricordi, in un percorso tragico e di speranza, ostinato e temerario. In ciò accompagnata dalla colonna sonora costituita prevalentemente dalle canzoni di Mina (e altre musiche a cura di Paolo Silvestri) e supportata dalla scenografia solo apparentemente minimalista, rivelatasi ricca di elementi sostanziali, alcuni descrittivi di una Sicilia rurale e assolata (scene e costumi Guido Fiorato, disegno luci Marco Filibeck), altri simbolici. Uno su tutti, l’arancia sbucciata per lapparne avidamente il dolce succo, gesto che ha inconsapevolmente costituito una presunta accettazione di quello che sembrava un corteggiamento amoroso e che si è tradotto in atto criminale, e il sacco di mele rosse (simbolo amato dal regista) che sono rotolate emorragiche al suolo a simboleggiare il sangue: quello del ciclo femminile e quello delle violenze fisiche che si sono aggiunte allo stupro.
«La femmina è una brocca: chi la rompe se la piglia, così dice mia madre. Io ero più felice se nascevo maschio…». Quasi tutte le presentazioni e le recensioni iniziano citando queste parole, che racchiudono il significato e la forza espressiva dello spettacolo. Si tratta della storia vera di Franca Viola che ad Alcamo nel 1965 rifiutò il matrimonio riparatore con l’erede di una famiglia mafiosa e che l’allora in vigore Codice Rocco prevedeva come atto che sanava stupro e violenza, estinguendo il reato. Respingendo con coraggio e fermezza la “paciata” e denunciando il suo aguzzino che finì in carcere, l’adolescente diede il via allo schiudersi di una nuova coscienza, anni dopo sfociata in una revisione legislativa.
E qui apriamo una parentesi, doverosa perché dà l’immagine di un’altra Sicilia, lontana dagli stereotipi e dai luoghi comuni. Di una Sicilia che ha saputo e ancora sa dire no ai mali che per troppo tempo ne hanno offuscato la bellezza («Io sono favorevole alla bellezza» dice l’eroina della piéce). L’avvocato che difese Franca Viola durante il processo era Ludovico Corrao (Alcamo 1927 – Gibellina 2011): dapprima vicino alla DC poi deputato della sinistra, Senatore della Repubblica e infine eletto sindaco di Gibellina. Grazie a lui la città in provincia di Trapani, rasa al suolo dal terremoto del Belice nel 1966, diventò un simbolo mondiale di resilienza e di rinascita. Corrao chiamò a raccolta gli artisti più importanti di quegli anni, diede vita al celeberrimo Cretto di Burri, installazione artistica sorta sulle macerie lasciate dal sisma, fece nascere un hub culturale di importanza internazionale, aprì il Museo delle Trame Mediterranee e fondò il celebre Festival Le Orestiadi. L’eredità continua anche dopo la sua scomparsa visto che Gibellina è da pochi giorni stata nominata dal Ministero quale prima Capitale Italiana dell’Arte contemporanea 2026 (focus e nomina vedi qui). Corrao ha saputo opporsi alle ingerenze mafiose proprio come Franca Viola ha rifiutato di assoggettarsi a una mentalità arcaica assimilabile a una mafia psicologica, che, come ha ricordato efficacemente in scena il personaggio di Oliva, era sostenuta con convincimento dalle donne e dalle madri, e favorita dal colpevole mutismo degli uomini e dei padri. Ma la Sicilia è anche altro: è terra fertile di donne capaci di pensare e di decidere, e di uomini che vogliono parlare e lo sanno fare, concretamente, nei fatti. Come il papà della protagonista dapprima chiuso in un disinteressato silenzio che infine si apre e dice alla figlia «se cadrai io ti sorreggerò». Anche la madre di Oliva grazie alla figlia acquisirà a poco a poco consapevolezza che le cose possano e debbano essere cambiate.
Franca Viola / Viola Ardone / Oliva Denaro / Ambra Angiolini ci hanno detto, in questi nostri giorni in cui la violenza verso le donne è tornata drammaticamente a occupare le prime pagine di cronaca, che dire no, dire basta, è possibile e doveroso. Ci hanno detto, in questo periodo storico ripiombato nelle tenebre, che amore non è violenza ma libertà.
Sul palcoscenico Ambra Angiolini, guidata dalla sapiente ed esperta mano di Gallione, ha fatto vivere momento per momento questo percorso personale. L’attrice non si è limitata a interpretare ma ha vissuto in prima persona una infinita gamma di sentimenti, di emozioni, di sensazioni, superando i dubbi e le paure di Oliva, accettando che il cammino della vita fosse costellato tanto di gioie quanto di dolori. Dopo il no al matrimonio riparatore che Viola disse al magistrato e che Ambra / Oliva ha urlato scendendo in platea e rivolgendosi al giudice-pubblico, l’attrice si è abbandonata a un pianto liberatorio. Non sappiamo quanto fosse reale e quanto invece magistralmente frutto di finzione scenica. Tuttavia non fa alcuna differenza, non ha importanza, in questo spettacolo come dicevamo perfetto anche per il suo saper sovrapporre inscindibilmente realtà e finzione.
Nemmeno sappiamo se il pubblico del Teatro Sociale di Mantova – sold out nell’ambito della stagione organizzata dalla Fondazione Artioli con la sagace direzione artistica di Raffaele Latagliata – abbia premiato l’esito con una standing ovation perché influenzato dalle recensioni che nelle precedenti tappe della tournée hanno registrato il dilagare routinario di tale tipo di consenso, oppure se sia stato un atto spontaneo e se anche dalla parte degli spettatori l’alzarsi in piedi sia stato una catarsi liberatoria. Propendiamo per questa seconda ipotesi.
Se il duo Angiolini – Gallione era stato da trenta, la lode è venuta, inaspettatamente, con ciò che solitamente invece ammazza gli spettacoli: un discorso extra piéce rivolto dall’attrice al pubblico, esortando i presenti a non limitarsi all’emozione ricevuta nello spazio teatrale ma a portare quel sentimento a casa, mettendolo in pratica nella vita. Un pistolotto finale che non ha spezzato l’atmosfera anzi l’ha amplificata, tanto anch’esso era confezionato bene, con valenza teatrale e sincera profondità di cuore.
Trenta e lode quindi per uno spettacolo da non perdere e anzi da rivedere assieme a un familiare, a un amico, a un conoscente, perché questa storia non deve essere dimenticata.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Sociale di Mantova il 17 dicembre 2024
Foto Laila Pozzo
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