Di Alessandra Pederzoli. Al cinema: Diamanti. Il film corale e tutto al femminile di Ferzan Ozpetek.

Ferzan Ozpetek mi piace da sempre, sin dal suo esordio. Oggi, con “Diamanti”, arriva al suo quindicesimo film. Come non seguirlo e non trovar posto in una poltrona di un cinema di provincia in attesa di entrare ancora una volta nel suo racconto. Peccato solo il clima da multisala per una nostalgica come me delle piccole sale cinematografiche, quelle in cui ti sembra ancora di sentire il ronzio della pellicola. Una perla oggi rarissima.

Come sempre non leggo recensioni, voglio avere la mente libera da preconcetti e piste di lettura che altri sguardi mi avrebbero fornito se mi ci fossi avvicinata. Solo pochi commenti di amici che prima di me hanno visto il film, ma poche parole e, peraltro, discordanti. Ottimo, penso, mi piace quando un’opera smuove le opinioni e crea disaccordo. Vuol dire che fa pensare.

Diamanti.
Sin dalla prima scena capiamo che ci troviamo di fronte a un canto corale, dove le donne saranno le protagoniste indiscusse. Si tratteggiano i contorni di un affresco variegato in rosa dove le molte sfumature sono date certamente dall’incredibile cast che conosciamo subito. In apertura del film troviamo tutti intorno a una tavola imbandita e rumorosa dove Ozpetek sta spiegando le intenzioni del film all’intero cast che chiude in silenzio queste prime scene, ciascuno in lettura del proprio copione. Stiamo entrando nel film a piccoli passi e lo facciamo con un cinema che, per certi versi, si mette a nudo. Viviamo un inizio insieme agli attori stessi, partecipando a una sorta di backstage, come sempre per Ozpetek, curato nei minimi dettagli.

“Diamanti” ci porta nell’atelier “Canova”, un elegante atelier romano gestito dalle due sorelle Alberta e Gabriella. Alberta autoritaria, dura e rigida in ogni suo rapporto, con una ferita aperta di una delusione amorosa importante; Gabriella fragile e malinconica, ancora alle prese con il lutto della figlia persa cinque anni prima che non riesce ad affrontare e trova rifugio nella bottiglia. Nella sartoria si muovono molte dipendenti, tutte donne e tutte con una vita privata faticosa e travagliata: c’è chi vive una relazione violenta di un marito che la immobilizza nel terrore, chi sta crescendo un figlio da sola, con grandi difficoltà economiche, e si trova a dover nascondere il bambino nella stanza dei bottoni della sartoria per poter lavorare; c’è chi vive l’angoscia di un figlio che non vuole uscire dalla sua stanza, nemmeno per mangiare e con il quale non riesce a trovare nessuna forma di comunicazione che riesca ad avvicinarla a lui; c’è chi vive un’appassionante storia d’amore segreta con il garzone, molto più giovane, che lavora in sartoria; e c’è chi fa da contorno a tutto questo mostrando le sfaccettature dell’essere donna, una sfumatura per ciascun volto.

Tutte insieme, e tutte con il loro dramma, le donne della sartoria trovano sul lavoro una complicità e un legame che le rendono unite, complici e solide. Un’unione che dà forza, che crea sicurezza e fa alzare la testa. La sartoria Canova realizza abiti di scena, lavora per il teatro e il cinema, ma principalmente per il cinema. Il giorno in cui arriva alla sartoria la costumista premio oscar, Bianca Vega, smuove le acque e crea agitazione nella squadra di lavoro: La Vega è dirompente, la sua entrata in sartoria è come un tornado che sembra far svolazzare gli scampoli di stoffa e le passamanerie. Lei lo sa che abito vuole. Lo sa.

Deve essere un abito luminiscente, avere luce in sé, deve essere leggero come la polvere, deve portarsi sulla scalinata con la sua leggerezza e cadere a ogni gradino come se fosse una manciata di perline lasciate rimbalzare e tintinnare. L’abito deve scendere e cadere dalle scale insieme a chi lo indossa; deve essere barocco e, allo stesso tempo, contemporaneo. Quell’abito che via via prende forma lungo il correre del film, diventa un vero e proprio protagonista. Attorno a questo abito, dai colori sgargianti e accesi, si muovono le donne della sartoria: cuciono, tagliano, modellano, aggiungono, tolgono. E mentre si muovono, come leggere e laboriose formiche, rinforzano anche le cuciture delle loro anime provate.

Seguiamo le nostre protagoniste in un avanti e indietro tra il 1974, anni in cui è ambientato il film, e la nostra tavolata con cui si è aperto. Commensale in assoluto protagonista della tavola è proprio lui, il regista, un Virgilio in Diamanti, il nostro Ferzan che chiude la drammaturgia con una lunga presenza in primo piano dove si fa una celebrazione del cinema e del suo linguaggio.
E poi…i titoli di coda.

Che dire di questo quindicesimo film del regista turco. Ho dovuto lasciar sedimentare idee e le impressioni per avere la giusta distanza e il tempo necessario per rileggere la mia esperienza di visione. Contrastanti i pensieri.

Colpisce indubbiamente il cast e la coralità ben resa da questo mondo rosa. Ogni personaggio ha caratteri propri ben delineati, dialoghi perfetti, non una battuta fuori posto, non una battuta che non renda l’umanità che ci sta dietro. Eppure l’impressione che mi è rimasta incollata addosso è l’aver scelto, forse pure un po’ strategicamente, le tematiche femminili più “in voga”, l’averle cucite addosso ad attrici veramente di alto livello, per poi metterle tutte insieme in un luogo di lavoro. Mi sembra però che Ferzan, così facendo, abbia voluto dire tanto per finire a dire poco o niente. Frasi ad effetto sulla forza delle donne, omaggi non troppo celati a Mina, Patty Pravo, Anna Magnani, tematiche forti ed attuali ma affrontate, a mio modo di sentire, in modo forse un po’ troppo superficiale e banale.

Da donna non sono riuscita ad entrare in empatia con le donne del film. Ed è un vero peccato. Credo che per dare voce alle donne forse il regista avrebbe dovuto avere una narrazione più agile, proprio come il vestito da confezionare, lunghi metri di stoffa tutti utilizzati per la creazione perfetta. Forse avrei preferito non perdermi nella ricostruzione dei fatti riguardanti le dipendenti, come se fossero lunghi strati di umanità che in alcuni casi mi pare si concludano in modo un po’ grossolano e ingenuo: come la storia del figlio chiuso in camera, o la relazione di Lunetta Savino che suona un po’ come poco credibile. Rimangono in ogni caso scene di grande profondità e intensità dove Ozpetek riesce a toccare il cuore e a farlo con la delicatezza e l’equilibrio che gli appartiene.

Forse avrei preferito anche una presenza più leggera del nostro Virgilio contemporaneo: a tratti mi sembra cada un po’ nell’autocelebrazione che, peraltro, non gli serve: la sua grande abilità registica parla da sola e fa storia da sola.

Alti e bassi dunque questa storia di Diamanti, pietre preziose che adornano chi le possiede, ma pietre dure, resistenti e durevoli. Proprio come le donne e la grandezza al femminile che Ozpetek celebra, ovviamente, a suo modo. Perché, in fondo, “non siamo niente, ma siamo tutto”.

Recensione di Alessandra Pederzoli
Bologna, gennaio 2025

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