Di Diego Tripodi. Bologna, Teatro Auditorium Manzoni: una sfida, le ultime tre sinfonie del genio di Salisburgo.
In Manhattan di Woody Allen si elenca “certe cose per cui vale la pena di vivere” e accanto a Joe DiMaggio e alle nature morte di Cézanne, al “vecchio Groucho Marx” e ai film svedesi, trova posto il secondo movimento dalla Jupiter di Mozart. Come non essere d’accordo? Al massimo possiamo essere ammirati e al contempo contrariati dalla facilità selezionatrice del meditabondo protagonista del film, perché soggiace ad un gioco in verità assai crudele, specie se indirizzato all’intero ultimo trittico sinfonico mozartiano, che per possanza e lascito rappresenta “un appello all’eternità”, citando il musicologo Alfred Einstein.
E in quanto ciclo iconico, nonché ovvio imprescindibile riferimento per una compagine che porta il nome dell’autore, le tre ultime sinfonie, sono state eseguite nel concerto dell’Orchestra Mozart tenutosi mercoledì 22 gennaio 2025 a Bologna, appuntamento che si prospettava sin dalla sua pubblicazione come vera delizia per i più incalliti mozartiani, da intendersi sia come cultori del genio di Salisburgo che come affezionati dell’orchestra di Bologna. Il concerto infatti era atteso ed è stato partecipato come di consueto con grande entusiasmo da parte del pubblico cittadino, che si è riversato numerosissimo al Teatro Auditorium Manzoni: sul podio, il M° Daniele Gatti, dal 2019 Direttore Musicale dell’orchestra.
Diremo quindi di certe nostre impressioni, circa l’interpretazione che il direttore milanese ha riservato a questi grandi capolavori, sobbarcandosi – è giusto rifletterci da subito – una sfida tutt’altro che indifferente e che, solo con una purtroppo comune ingenuità di vedute riguardo queste pagine e sbagliando massimamente, non si riconoscerebbe.
Si aggiunga anche che la serata è stata nel suo complesso piacevole e ottimamente condotta da orchestra e direttore, seppur impegnativa certamente per l’omogeneità del programma.
E proprio da qui partiremmo. A nostro avviso il cuore dell’insidia, cui già si diceva, rappresentata dalle ultime tre sinfonie mozartiane risiede precisamente nella spiccata individualità di ognuna, ancorché, ovviamente, sottesa alla comunanza idiomatica dell’ultimo Mozart. Questo problema, per come si è presentato all’ascolto, è stato purtroppo affrontato con discontinuità e la lettura è risultata abbastanza statica e uniforme. Non stupisce quindi che le scelte del direttore, di cui ora diremo, siano state di volta in volta più o meno calzanti.
Una delle caratteristiche principali dell’interpretazione di Gatti si incentrava anch’essa su un terreno molto dibattuto, ossia quello della mobilità agogica, dell’elasticità di tempo, ma in definitiva di carattere, con cui si possano affrontare temi, scritture, gesti all’interno di una stessa pagina musicale.
Non entreremo naturalmente nel merito della questione, sulla quale si spende debitamente la musicologia, ma ci limiteremo a constatare che, nella fattispecie della scorsa serata, ancora una volta l’applicazione è risultata non sempre riuscita. Naturalmente a nostro modo di sentire.
A farne le spese maggiormente è stata la Sinfonia n°39 in mi bemolle maggiore, forse a causa di quella sua “palpitante, calda, gioiosa sensualità” (Paumgartner) che facilmente può indurre a patetismi retorici e a morbidezze, che però distolgono il cuore dall’andamento alato che la pervade, e hanno reso, per esempio, l’ultimo sospiro amoroso dell’Andante con moto, il toccante suggello di un Brahms un po’ sbarbato.
Più interessanti, certamente, le scelte di scarto dinamico nel primo movimento della Sinfonia n°40 in sol minore, mentre nell’Andante, di nuovo certi effetti nel fraseggio, certamente ricercati, non sono riusciti naturali.
In definitiva, ci è parso il risultato di un paradosso, per cui l’innegabile cura di certi dettagli e la volontà coraggiosa di certe scelte, hanno però più fatto danno che un favore alla carica emozionante della musica di Mozart, che dunque era in un certo senso in balia del suo gusto estetizzante, unico “punto debole” immaginabile in questa musica.
La Sinfonia n°41 “Jupiter” in do maggiore, è forse più nelle corde di Gatti, oltre che a prestare meno il fianco a rischi interpretativi come le due consorelle, che sono sfuggenti, piene di pensosi e diversi interrogativi, mercuriale eppure eroica la prima, cattiva e profetica la seconda.
La Jupiter è come se presentasse un grado zero inscalfibile di oggettività, una sua propria retorica nobilissima e incontrovertibile da esterne lusinghe: dunque, ha retto bene o, semplicemente, ha trovato una confidenza maggiore nelle intenzioni del direttore.
Le idee di Gatti sono state ovviamente anche molto spesso convincenti e interessanti: ad esempio una certa distanza impressa fra l’accadimento del “segnale d’inizio” delle prime otto battute della Jupiter e il suo prosieguo; splendidamente eseguito anche il secondo movimento e sgargiante di fiero convincimento, finalmente energico e lucido, il celebre finale che dunque, come uno scatto di reni, ha dato slancio all’esecuzione in prossimità della sua conclusione.
L’Orchestra Mozart, come già ci è capitato di evidenziare, rappresenta una sicurezza… troppo incerta per la città di Bologna e desidereremmo moltissimo – noi ma, come a sentire dalle ovazioni, il pubblico tutto – minore discontinuità nelle sue apparizioni, cosa che, fra l’altro, le gioverebbe molto anche in una più precisa stabilizzazione musicale, a volte sacrificata dall’occasionalità del ritrovarsi.
E si ritroverà ancora una volta, e ancora una volta con Daniele Gatti, purtroppo soltanto nel prossimo dicembre, lasciandoci però la consolazione di goderne i solisti, per così dire, a metà dell’attesa in un concerto nel prossimo maggio.
Recensione di Diego Tripodi
Visto a Bologna, Teatro Auditorium Manzoni il 22 gennaio 2025
Immagine: Daniele Gatti (C) Marco Caselli Nirmal
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