Di Maria Luisa Abate. Parma, Teatro Regio: le Variazioni Goldberg di Bach nell’interpretazione della celebre pianista canadese.
“Ascoltate e crepate di noia”. No, così non è stato e lo sottolineiamo a chiare lettere. Le note di sala di Giuseppe Martini hanno citato uno spiritoso aneddoto che accompagna le Variazioni Goldberg, in bilico tra ricostruzione storica e leggenda. La monumentale composizione di Bach infatti non era risultata adatta a rallegrare una serata di bisboccia tra amici; ma neanche, funzione attribuitale, ad accompagnare tra le braccia di Morfeo “se non, al limite, per sfinimento”, sempre citando le note di sala.Pare in realtà che il loro scopo non fosse di fungere da melatonina bensì di allietare le lunghe notti insonni del committente, il conte Hermann Carl von Keyserling, ambasciatore russo presso la corte di Dresda. Il quale prese sotto la propria ala protettrice Johann Gottlieb Goldberg, giovane musicista che brillava in doti virtuosistiche e per il quale Johann Sebastian Bach compose questo straordinario esercizio di bravura. L’opera vide la luce con la specifica “pratica per strumenti da tastiera […] composta per gli intenditori” e il pubblico del Teatro Regio è per l’appunto formato da palati fini. È altrettanto innegabile che l’ascolto risulti impegnativo e necessiti di attenzione per cogliere le innumerevoli finezze compositive e anche interpretative, visto che parliamo di una delle più celebri e stimate pianiste della scena mondiale: Angela Hewitt.
L’Aria con 30 variazioni, per clavicembalo, questo il titolo esatto, costituisce una pietra miliare nella storia della musica, un unicum con il quale inevitabilmente confrontarsi (impossibile non menzionare “il caso” Glenn Gould). Hewitt ne ha dato una lettura splendidamente essenziale, riconducibile all’originaria funzione del pezzo di essere un esercizio di virtuosismo, di tecnicismo.

Disciplina, disciplina e ancora disciplina per assecondare la simmetria strutturale bachiana, riletta con infiniti risvolti prevalentemente demandati alla timbrica che ha caratterizzato sia le Variazioni malinconiche che quelle gioiose. Complice il pianoforte Fazioli dalla “voce” schietta e dalle entusiasmanti possibilità dinamiche che certo non possedeva il clavicembalo con due manuali per il quale furono composte (limiti tecnici dello strumento sei-settecentesco che rendono stupefacente l’abilità richiesta all’interprete), e complice anche l’uso estremamente parsimonioso del pedale da parte della concertista, il suono è sgorgato di un’asciuttezza rivelatrice, di chiarezza e pulizia adamantine. Evitati gli abbellimenti, Hewitt ha eseguito i ritornelli (ci hanno confermato persone più esperte di noi): la durata complessiva è stata poco meno di un’ora e mezza, senza spartito, a memoria, mantenendo generalmente tempi rallentati conquistati con la maturità. Una raggiunta consapevolezza bachiana sviluppata dalla pianista canadese (vive a Londra, con casa a Ottawa e in Umbria) nel corso della sua lunga frequentazione con l’autore, dagli esordi all’età di sedici anni fino alla codifica in diverse edizioni discografiche delle Variazioni Goldberg.
Minuzie, ceselli e filigrane racchiuse entro un comune denominatore espressivo, entro un “edificio” armonico dal mutevole divenire. Tecnica, fraseggio, articolazione delle dita che sono parse non aver compiuto sforzo alcuno. E tanto, immenso, smisurato, amore per Bach. Una lezione di grazia e di duro lavoro.
Sull’ultima nota è partito un accenno d’applauso subito frenato. Angela Hewitt infatti è rimasta per lunghi istanti immobile, con le dita poggiate sui tasti, ancora beandosi della felice bulimia bachiana. Un momento magico, intimo, ieratico, che il pubblico ha rispettato e assaporato. Solo quando le mani si sono staccate dal “coda” con gesto ampio e quasi liberatorio da quell’irretente stato d’animo, gli applausi sono scrosciati fragorosi.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma l’8 marzo 2025
Immagini di repertorio. Copertina: credit Richard Termine
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