Di Maria Luisa Abate. Mantova, Teatro Sociale: la finzione come via più efficace per arrivare alla realtà. Splendida Maria Paiato. Non da meno Granelli e D’Auria.
Leggerezza e ironia. Sono questi gli ingredienti, anzi le “parole d’ordine” che caratterizzano il testo e che hanno qualificato l’allestimento di Boston Marriage, commedia brillante andata in scena come ultimo titolo della stagione di prosa organizzata dalla Fondazione Artioli al Teatro Sociale di Mantova.
Il drammaturgo contemporaneo David Mamet (che detto per inciso condivide il giorno del compleanno con la scrivente, ma non l’anno!), sceneggiatore e regista per teatro e cinema dove ha firmato successi universalmente noti, premio Pulitzer e due volte candidato agli Oscar, sceglie la Boston di fine Ottocento per collocare la storia di due donne che in passato avevano fatto coppia e poi si erano perse di vista. Tratta insomma, con estrema levità, di quello che ha preso il nome di “matrimonio bostoniano”: una convivenza di donne sganciate dalla sudditanza maschile e che comporta talvolta, ma non sempre, implicazioni sentimentali.

Le due protagoniste si reincontrano e l’amicizia evolve in complicità quando quella che ha sedotto un riccone offre all’altra di condividere agi e vantaggi. «Certo che è sposato: altrimenti perché dovrebbe avere un’amante?» spiega Anna, la quale concede agli uomini la sola valenza di protettori.
Questo non è l’unico tema presente nella pièce, dove, tratteggiati con ironia, si trovano i concetti di libertà e indipendenza; ci si imbatte nelle regole imposte dalla società maschilista; si notano le differenze di classe intesa come casta e che portano a giochi di potere; si ravvisano le dinamiche relazionali e la finzione celata sotto le maschere imposte dalla società. Spicca la non-presenza degli uomini, assenze che si immaginano sullo sfondo e che meritano, come unica considerazione, il ricavarne appartamenti e collier di smeraldi grossi come noci. Salvo poi venire a sapere che…. ma questo è uno dei colpi di scena che non sveleremo.
Per tali motivi ci ha lasciati perplessi l’incontro con il cast che si è tenuto poco prima dello spettacolo: una appropriazione ideologica con tanto di bandiera multicolor che a nostro modesto parere ha zavorrato la magnifica ariosità della commedia e ha minato la multivalenza del messaggio di Mamet. Un dialogo a beneficio di una ventina di uditrici (lo spettacolo invece era sold out) in cui le tre attrici hanno saggiamente ed eloquentemente opposto in più di un’occasione un “non so rispondere” a domande che precipitavano in quell’inspessimento, in quella grana grossa che l’autore ha accuratamente evitato. Maria Paiato, comprendendone perfettamente il valore, ha ripetuto come un mantra la parola leggerezza, quasi invocandola nel contesto pomeridiano. Passandosi il microfono con le colleghe Mariangela Granelli e Ludovica D’Auria, l’attrice ha spiegato che l’efficacia del testo nell’affrontare tematiche come l‘unione tra donne, risiedeva proprio nel non parlare esplicitamente di omosessualità. Mamet ha preferito lasciare l’argomento nella sospensione tra detto e non-detto, facendolo comparire fulmineo in una battuta, celandolo in una gag, per poi altrettanto repentinamente cambiare discorso e tono. Piccoli flash dagli effetti subliminali che cadono come fulmini e un attimo dopo sono già scivolati via, avendo infiltrato consapevolezza nello spettatore.

La chiave di volta della pièce sta infatti nel proiettare temi importanti nell’ambito della finzione come il teatro oppure, secondo il regista, in uno studio con la scritta (purtroppo piccola e decentrata) ON AIR, perché solo la finzione può raggiungere contorni reali con tale incisività e verosimiglianza. ON AIR ha anche indicato che la regia ha scelto di rappresentare il comportamento umano – la messinscena della vita – senza attribuirgli giudizi, pregiudizi o retropensieri.
Questa produzione Centro Teatrale Bresciano e Teatro Biondo di Palermo ci ha mostrato una stanza dalle pareti rosa come fosse una bomboniera (scene Alberto Nonnato) arredata con mobilia di fine Ottocento, epoca cui si rifacevano anche i costumi (Gianluca Sbicca). Il salotto era sormontato da “americane” e riflettori a vista (luci Cesare Agoni) e appunto il segnale di messa in onda che rimandava a un set televisivo. Una recita nella recita ma senza le tortuosità del solito metateatro, dove per l’appunto la leggerezza è stata utilizzata come robusto vettore per raggiungere spessore e profondità, giostrando tra celato e svelato, tra sotteso ed esplicito, e tante tante risate.

Intento concretizzato da una triade attoriale davvero formidabile. Ha svettato Maria Paiato, vincitrice del prestigioso Premio Le Maschere del Teatro Italiano come miglior attrice protagonista proprio per “Boston Marriage”, assolutamente strepitosa, irresistibilmente divertente nella finta enfasi che ha assunto il personaggio della mantenuta stagionata, della dama ingioiellata anche quando è in vestaglia che cela la sua rozzezza sotto una patina inveritiera di altolocata signorilità, che usa un linguaggio forbito dal quale sprizzano da tutti i pori volgarità da bassifondi. Va da sé che mostrare con tale nitidezza due diversi lati di un personaggio richiede doti da grande Scuola attoriale. Paiato, che non a caso è stata pupilla di Ronconi, è riuscita nella mission impossible di compendiare, in Anna, un briciolo della Duse di D’Annunzio e un pizzico della commedia dell’arte di Goldoni, una manciata di Oscar Wilde e un accenno al vaudeville, un omaggio a piene mani a Paolo Poli e una strizzata d’occhio a Franca Valeri. Sublime. Come fosse una musicista Paiato ha sciorinato virtuosismi del corpo del volto e dei toni della voce, tra marcature e glissati, accenti e colori, pause e impeti. Calibrando il tutto con gusto, classe, con vis comica da manuale. Grandiosa, ineguagliabile, assolutamente perfetta.
L’amica ritrovata dopo molto tempo, Claire, schietta e volitiva, il cui carattere forte è caduto vittima della disperazione, in cerca di un qualsiasi appiglio, di un salvagente per non cadere a picco, era l’altrettanto convincente Mariangela Granelli, “spalla” di lusso che ha saputo conquistare meritati primi piani.

Irresistibile la domestica, ruolo marginale solo in apparenza, viceversa sostanziale per dare spessore alle altre due donne e a farne cadere le maschere. Una giovinetta maldestra originaria delle isole scozzesi che «si trovano… nell’acqua», lenta di comprendonio e facile al pianto. A metà tra il borderline e il surreale, Ludovica D’Auria ha fatto un gioiellino luccicante della cameriera della quale viene sempre sbagliato il nome, dallo sguardo inebetito, dai modi goffi e sgraziati e con il vizio d’inserirsi sempre inopportuna nella conversazione, fatto che ha evidenziato l’uso millimetrico dei tempi comici dell’attrice.
Giorgio Sangati ha abilmente movimento una situazione scenica fissa, vivacizzata da tessuti musicali (Giovanni Frison), dove le battute sono risuonate fulminanti e l’espressività gestuale tarata a puntino, in un crescendo comico irresistibile scandito dal ritmo spumeggiante. Poggiato, quest’ultimo, sulle solide basi della traduzione italiana del testo a firma del grande Masolino D’Amico che si è mosso con la perizia di un equilibrista sul filo della parola, alludendo e non dicendo, talvolta esplicitando. Il commediografo, il traduttore, le attrici, il regista, hanno rimarcato il concetto che la via più efficace immediata e diretta per rappresentare la verità sia la finzione. Perché la vita è una pagina scritta, è un set, è un palcoscenico, è uno studio di registrazione. Ciak, si parte: siamo tutti ON AIR.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto a Mantova, teatro Sociale il 10 marzo 2025
Immagini di repertorio: Serena Pea
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