Di Diego Tripodi. Bologna, Teatro Auditorium Manzoni – Musica Insieme: intesa, trasporto, disinvoltura sia generale che nel dettaglio, bellezza del suono per il Quartetto Werther.

Troppo spesso il suprematismo che il quartetto d’archi esercita sulla nostra abitudine d’ascolto non ci lascia soffermare su quante soluzioni timbriche e meno omogenee la soluzione “a quattro” abbia prodotto in secoli di musica. Ma dato che proprio non si riesce a sfuggire ad una mentalità gerarchica, anche fra le alternative, senza ombra di dubbio, alcune occupano un ruolo di maggior prestigio e, prima di ogni altra, il quartetto con pianoforte, che è stato un affascinante banco di prova per la grande cameristica romantica (ma, naturalmente, non solo). Il raro confronto con i tre archi più pianoforte conduce o, come in una ruota, proviene ovviamente dalla uguale rarità di formazioni stabili e dedite a questo repertorio, in particolar modo da noi in Italia.

Questa prima considerazione, per quanto semplice, era una decisiva aggiunta di pregio all’appuntamento che Musica Insieme ha destinato al Quartetto Werther, lunedì scorso 17 marzo, presso il Teatro Auditorium Manzoni di Bologna.
A dispetto della giovane età dei componenti, sia gli stessi che il Quartetto vantano già un decennio lastricato di successi e un’attività concertistica intensa di livello internazionale.

Per la serata bolognese, il nesso tematico scelto a legare il programma era il talento: infatti, il secondo quartetto di Mozart, padre ideale del genere e prodigio per antonomasia, cedeva il passo a una pagina in netto contrasto, il livido secondo quartetto di Enescu (altro enfant prodige e poliedrico musicista); e, dopo la pausa, al terzo quartetto di Mendelssohn, opera di un quindicenne il cui genio precoce e multiforme è ugualmente noto.

Abbracciando centocinquant’anni in tre secoli, fra tendenze e linguaggi anche più numerosi ancorché meno definibili, il programma dunque voleva fare sfoggio di completezza, mostrandosi ben studiato e capace di mettere in mostra le molteplici qualità del gruppo, grazie ai ricchi contrasti espressivi e delle scritture.
Il Werther è una formazione di agile compostezza, un ossimoro che tuttavia trattiene la conciliazione di due aspetti assai positivi e preponderanti nei quattro interpreti.

Il loro è stato un Mozart pulitissimo, arioso, proprio nel senso preciso del termine, ossia di un’impalpabile materia, evanescente ma non insignificante; con acume, tutto era giocato sul suggerimento di quella bugiarda semplicità che cela raffinati artifizi compositivi dietro una superficie deliziosamente galante. Il gruppo si è lasciato tentare e ha giocato mirabilmente nel nascondino mozartiano, snodando la fanciullesca rincorsa fra il pianoforte e il trio d’archi, che si quintessenzia nello scherzoso indugiare dei lazzi nel terzo movimento o delle fioriture nelle ripetizioni (un’arte da molti ostentata, ma da pochi realmente posseduta e il Werther è fra questi).

Enescu, autore suggestivo e crepuscolare, in seconda postazione recava un contrasto emozionale con Mozart, che solo la terza parte mendelssohniana del programma ha potuto in qualche modo sanare. Il gruppo si è mostrato qui più caldo e, seppur senza smentite, era a nostro avviso come in una dimensione eletta. D’altronde, la pagina consentiva a tutti i membri di liberare il proprio valore più squisitamente emotivo e, al netto di una pagina magmatica, in modo maggiore che nel precedente “classismo” da ancien regime settecentesco.

Dopo breve pausa, come si diceva, la composizione di Mendelssohn da un lato recuperava l’aura di geometrica classicità e riportava tecnicamente il pianista Antonino Fiumara sul terreno della digitalità esasperata e mirabolante (che comunque egli padroneggia assai bene); dall’altro introduceva nuove tinte ancora inaudite, con esattezza quelle “Sturm und Drang”, che hanno ben motivo d’esserci in un’opera dedicata a Goethe, al cui Werther naturalmente si riferisce anche il nome del Quartetto.

In un concerto effettivamente in crescendo, qui a nostro avviso i quattro interpreti hanno dato il meglio con un’interpretazione che per intesa, trasporto, disinvoltura sia generale che nel dettaglio, bellezza del suono, si portava a livello dei grandi interpreti.

Il vigore giovanile ha consentito al Quartetto Werther, dopo pagine così impegnative, di non negare ben un paio di bis, entrambi all’insegna dell’etnicismo: la curiosa Arabischer Tanz dal sapore magrebino di Richard Strauss e il noto rondò alla zingarese del primo quartetto di Brahms, pagina intrisa degli stessi umori e ungarismi che hanno consacrato l’autore alla più vasta popolarità da sempre.

Non c’è ombra di dubbio che il Quartetto Werther sia un gruppo oramai fuori dall’adolescenza musicale e dall’apprendistato, a pieno titolo nel girone degli interpreti che vale assolutamente la pena correre ad ascoltare.

Recensione di Diego Tripodi
Visto a Bologna al Teatro Auditorium Manzoni, per Musica Insieme, il 17 marzo 2025.
Foto © Andrea Ranzi

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