Di Maria Luisa Abate. Verona, Teatro Filarmonico. Il tocco delicato di Pletnëv nel Rach3 e la graffiante incisività di McAdams nel ‘Mandarino meraviglioso’.
Si viene assaliti da una sensazione di serenità interiore che conforta lo spirito e lo illumina assistendo a un concerto di Mikhail Vasil’evič Pletnëv al pianoforte. Non un’esperienza di ascolto ma piuttosto il raggiungimento di uno stato d’animo che colpisce i sensi per via subliminale. La stessa percezione da noi già sperimentata nel novembre 2022 (a Mantova, vedi recensione qui) e ora ripetuta a Verona, identica nella sostanza e diversa nella declinazione.
Chi è alla ricerca del divo che si pone sotto i riflettori, è meglio si astenga. Pletnëv è una acclamata star che non si atteggia a tale, che aborrisce le manifestazioni eclatanti tanto quanto il pianismo magniloquente. La sua arte rifugge queste esteriorità per accoccolarsi in un ambito interiore che poggia solide basi sulla tecnica ineccepibile con cui snocciola cascate di note limpide e fresche.

Nel Teatro Filarmonico sold out, passato da un silenzio come sospeso durante l’esecuzione e poi scioltosi in un tripudio di applausi, Pletnëv ha eseguito il concerto n.3 op. 30 di Sergej Vasil’evič Rachmaninov, confidenzialmente il Rach3. Lo sguardo enigmatico fisso in un punto che si trovava oltre i limiti della percezione visiva, il corpo pressoché immobile, il pedale usato con estrema parsimonia, tutto è stato affidato alle dita dal tocco leggero, delicato, fluido. Nell’affrontare la ricchezza della partitura con la ben nota scioltezza nei virtuosismi, ha ricondotto a un Rachmaninov che ha superato le consuetudini d’ascolto. Del compositore considerato uno degli ultimi romantici, il pianista russo ha accantonato ogni sfoggio di romanticismo fine a se stesso per assestarsi su registri lirici sgorgati dalla parte più nascosta di sé, senza elementi di intermediazione: un flusso poetico improntato alla meditazione, a una sottile quasi impercettibile malinconia tardoromantica, per poi aprirsi, nell’ultimo movimento, a slanci vivaci travolgenti e vibranti. Con magistrale libertà interpretativa Pletnëv si è soffermato su colori e timbri illuminando zone della partitura che solitamente rimangono nell’ombra. Bis, che esso solo valeva l’intero concerto, riservato ai riverberi lunari di un Notturno di Čajkovskij, tra il pubblico in delirio.

A costruirgli attorno la necessaria architettura sonora, a favorire questa lettura personale, la sempre duttile, versatile, pronta a ogni circostanza Orchestra di Fondazione Arena di Verona che in questa occasione ha raggiunto livelli qualitativi extra-ordinari, attestanti il valore dei suoi Maestri e una sensibilità interpretativa davvero notevole, che ha superato le più rosee aspettative e appagato i palati più esigenti. A guidarla con gesto deciso il giovane direttore americano Ryan McAdams che, al tocco delicato del pianista, ha risposto con volumi calibrati e con attenzione allo sviluppo dei temi che si sono rincorsi in un gioco cromatico.
Questa era l’ultima parte del programma. La serata si era aperta con due momenti sinfonici. Innanzitutto la prima italiana di Brink del compositore contemporaneo Donnacha Denney. Nato a Dublino nel 1970, studi a Parigi, trasferimento ad Amsterdam, il suo stile compositivo si basa spesso sulla reiterazione di pattern. In questo brano della durata di soli 5 minuti Denney, con cui il direttore McAdams vanta una proficua collaborazione sfociata in una lettura perfettamente rispondente agli intendimenti autorali, ha condensato l’ispirazione alle danze del folclore irlandese per sviluppare una personale e autonoma ricerca timbrica sfociata in uno slancio ritmico materico e convulso.

Come omaggio agli 80 anni dalla morte di Béla Bartók, la parte centrale del programma era riservata ai colori caleidoscopici della pantomima in un atto Il Mandarino meraviglioso op.19 (oppure Mandarino miracoloso: le due diciture convivono, anche nel programma di sala, in quanto l’aggettivo csodàlatos possiede entrambi i significati ed è soggetto a diverse traduzioni). Il compositore morto a New York era originario dell’Ungheria (di una zona che oggi è Romania) e si percepiscono distintamente le influenze delle musiche popolari della sua terra che ne fanno un esponente dell’Etnomusicologia. Al contempo fu un profondo innovatore e il Mandarino strizza l’occhio alle avanguardie, cavalcando le sperimentazioni atonali. Dal podio McAdams le ha evidenziate con la dovuta asprezza: infatti le note descrivono il Mandarino come un essere spregevole e malevolo tanto da non poter morire; solo la pietà di una delle sue vittime, una giovane costretta ad adescare gli uomini per poterli derubare e che supererà il ribrezzo nei suoi confronti, gli consentirà la morte liberatoria.
Il direttore ha scavato a fondo con convinzione alla ricerca del significato espressivo di questa composizione dalla genesi travagliata. Dal suo debutto a Colonia nel 1926 la pantomima fu giudicata oscena e venne messa al bando per amoralità. Fu invece accolta favorevolmente la versione in forma di dramma coreografico che Aurell Milloss ideò assieme allo stesso compositore proprio per edulcorarne i toni e che fu messa in scena alla Scala del 1942. Ebbe maggior fortuna la riduzione a suite orchestrale che ne fece lo stesso Bartók. La partitura si bea delle ossessioni ritmiche tra sprazzi luminosi tipicamente espressionisti, si lascia travolgere dall’accavallarsi scarmigliato di note, si abbandona a un crudo vaneggiamento, alle dissonanze graffianti, in quel bilanciamento di forze che il direttore ha reso turbinoso e allucinato, sprizzante energia drammatica: McAdams ha sfoderato incisività ritmica e timbrica e spirito visionario plasmato sul tessuto armonico splendidamente affilato.
Ancora un concerto, nel cartellone invernale di Fondazione Arena di Verona, che ha unito la qualità degli interpreti all’interesse suscitato dal programma.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto a Verona, Teatro Filarmonico, il 28 marzo 2025
Foto Ennevi
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