Di Vincent Cipriani. Opéra de Paris – Opéra Bastille: scene visionarie, regia concentrata sulla corporeità dei personaggi, direzione espressiva, d’immensa qualità il cast.

Il 30 aprile 1902, la musica di Pelléas et Mélisande, l’unica opera lirica di Debussy, risuonò per la prima volta sul palcoscenico dell’Opéra Comique di Parigi. Che sconvolgimento estetico! Va detto che, per molti aspetti, quest’opera ha ribaltato i codici del genere vigenti all’alba del XX secolo: è una musica dell’inesprimibile, senza grandi arie virtuosistiche, in cui il ritmo del canto è coscienziosamente modellato su quello del linguaggio parlato, con un’impressione generale di vaghezza, indeterminatezza e mistero… Tutto ciò generò una delle più clamorose polemiche artistiche di sempre, tanto che il direttore del Conservatorio di Parigi, Théodore Dubois, vietò ai suoi studenti di assistere alle rappresentazioni!

Pelléas et Mélisande, è la storia di Tristano e Yseult, rivisitata da Maurice Maeterlinck. Mentre cacciava in foresta, il principe Golaud incontra Mélisande, e decide di sposarla, senza nemmeno sapere chi sia o da dove venga. La porta con sé al castello del re Arkel, suo nonno. Lì, Mélisande incontra Pelléas, fratellastro di Golaud, e se ne innamora. Alla fine Golaud scopre questo amore e uccide Pelléas.

123 anni dopo, nonostante un inizio un po’ difficile – Sabine Devielhe si è ammalata a fine febbraio, causando l’annullamento dell’anteprima under 28 – la stessa opera ha quindi risuonato nell’anfiteatro dell’Opéra Bastille dal 28 febbraio al 27 marzo, diretta da Antonello Manacorda, in una nuova produzione con la regia di Wajdi Mouawad.

Lo spettacolo inizia senza il tradizionale applauso quando il direttore d’orchestra entra in buca: le luci della sala si spengono progressivamente mentre il direttore non è ancora arrivato. Il sipario si alza e nella penombra appare gradualmente l’immagine di una foresta. Si intravede una bestia dai lunghi peli arruffati che attraversa il palcoscenico – è la bestia inseguita da Golaud – e inizia la musica, che sembra emergere dalle viscere di questa foresta. È quindi molto gradito per quest’opera il fatto che il direttore d’orchestra sia entrato in buca senza farsi notare: ci permette di entrare dolcemente nella discrezione e nella sottigliezza dell’opera, senza il rumoroso scroscio iniziale di applausi.

L’elemento chiave della scenografia, realizzata da Emmanuel Clolus, è un grande schermo su cui vengono proiettate delle immagini, che fungono da sfondo per tutto lo spettacolo. Originalità da notare: lo schermo è in realtà costituito da una moltitudine di cordicine, sottili elastici verticali (che rappresentano tra l’altro i lunghi capelli di Mélisande); i cantanti fanno alcune delle loro entrate attraversando lo schermo, dopo aver tirato le corde con le mani.

Subito davanti allo schermo si trovano tre piedistalli mobili, che si innalzano fino a un metro sopra il resto del palcoscenico, a diverse altezze; a volte evocano un balcone, una piattaforma o una scala. Al centro del palcoscenico si trova una grande vasca a forma di occhio, che rappresenta sia la cosiddetta Fontana dei Ciechi, sia la grotta dove Golaud e Pelléas cercano di recuperare l’anello di Mélisande. Nel corso dell’opera, questa vasca viene progressivamente colmata da una grande statua di un equino rovesciato (che rappresenta la caduta di Golaud da cavallo) e da carcasse di animali portate da cacciatori, così che alla fine dello spettacolo la vasca è completamente piena – come per sottolineare la progressiva putrefazione del castello, l’onnipresenza della morte e il costante riferimento a una forma di bestialità.

«Bisogna che sia quasi trasparente, che sia al limite della smaterializzazione per far sentire le voci e i corpi dei cantanti», ha spiegato Wajdi Mouawad per descrivere le sue scelte di messa in scena. In effetti, le immagini e i video di Stéphanie Jasmin proiettati sullo schermo non mostrano mai un castello: vediamo una successione di immagini di natura selvaggia, vedute aeree di foreste, visioni acquatiche e subacquee. Non c’è nessun spazio interno, nessuna intenzione umana, nessuna costruzione artificiale in queste riprese, ma solo natura grezza, immacolata e pura. Ad esempio, la Fontana dei Ciechi è evocata con immagini di una vera cascata, non con una vasca di pietra. Questo ambiente naturale rafforza l’impressione di solitudine, di solipsismo, con i personaggi immersi in questa natura grezza ed estranea a qualsiasi forma di civiltà.

Inoltre, eccetto alcune lanterne e la spada di Golaud, non ci sono oggetti di scena. L’arredamento è estremamente minimalista: il letto su cui giace Golaud dopo la sua caduta e quello di Geneviève nel quinto atto sono rappresentati da un parallelepipedo nero posto sui piedistalli mobili. È chiaro, quindi, che Wajdi Mouawad ha voluto cancellare ogni riferimento alla realtà umana, al fine di per smaterializzare e disumanizzare l’ambiente dei personaggi.

Tra le carcasse di animali e le proiezioni video di natura selvaggia, i personaggi stessi tendono più all’animale che all’umano. Durante l’incontro con Golaud, Mélisande, accovacciata a quattro zampe, assume un atteggiamento molto selvaggio e animale. Alla fine dell’opera, per simboleggiare il ricongiungimento nella morte di Mélisande e Pelléas, i due amanti sono coperti da una pelliccia e da una maschera ferina (abiti di Emmanuelle Thomas). Al contrario, la bestia che attraversa il palcoscenico subito dopo l’apertura del sipario è bipede e appare stranamente umana. Il confine tra umano e animale è perciò sfumato, come se gli impulsi e i sentimenti dei personaggi fossero puramente animali.

Le immagini proiettate sullo schermo danno una colorazione impressionistica all’insieme, una sensazione di leggerezza, ma non contribuiscono a far progredire l’azione, perché spesso non hanno un legame diretto con il libretto. Ad esempio, quando Geneviève legge la lettera di Golaud ad Arkel – una scena che dovrebbe svolgersi all’interno di una stanza del castello – lo schermo proietta una veduta aerea di una collina coperta di boschi. Poco dopo, quando Pelléas dice di vedere Geneviève e Mélisande “a una finestra della torre”, queste passano davanti allo schermo, che ancora una volta mostra una veduta aerea di una foresta autunnale. Nell’ultimo atto, che dovrebbe svolgersi nella camera da letto di Mélisande, vediamo uno sfondo quasi completamente bianco; anche se non si capisce bene cosa rappresenti, si può supporre che si tratti di neve su un albero.

Ciò che emerge da tutte queste immagini è una sensazione di bellezza, con queste visioni di grande valore estetico, ma la cui mancanza di connessione con la trama e di riferimento spaziale rende difficile lasciarsi prendere dal gioco. Tanto più che i cantanti sono spesso affiancati e rivolti verso il pubblico (a parte quando il testo richiede direttamente qualche gesto), in modo che l’opera sembra spesso una versione concerto. Questo non è necessariamente un aspetto negativo, ma merita di essere sottolineato: in nessun momento si immagina di essere nel regno di Allemonde; si resta sempre pienamente consapevoli, per tutta l’opera, di essere seduti in un teatro d’opera.

Dal punto di vista musicale, come sempre all’Opéra de Paris, l’orchestra è stata notevolmente espressiva, precisa e accurata; la direzione di Antonello Manacorda, conservando il carattere intimo dell’opera, ha permesso di essere al contempo avvolgente e discreta – una prodezza viste le dimensioni gigantesche dell’Opéra Bastille.

Per quanto riguarda i cantanti, il cast è ovviamente di immensa qualità, con Sabine Devielhe nel ruolo di Mélisande, Huw Montague Rendall nel ruolo di Pelléas, mentre Golaud era interpretato da Gordon Bintner. Come l’orchestra, anche i cantanti hanno saputo essere discreti. La voce chiara di Sabine Devielhe attraversa l’aria senza difficoltà; le voci più basse invece facevano talvolta fatica a farsi sentire, anche dalla decima fila della platea verso il fondo; ciò per una precisa scelta direttoriale che ha privilegiato le atmosfere sottili, forse eccedendo in delicatezza.

Cosa dire delle voci di Huw Montague Rendall e Gordon Bintner, se non che tutti gli elogi che ricevono sono assolutamente meritati? Per quanto riguarda i ruoli secondari, nel complesso sono altrettanto soddisfacenti, compreso il notevole Arkel interpretato da Jean Teitgen, il cui timbro è di una grande bellezza, sottolineando perfettamente tutta l’ambiguità del suo personaggio.

Infine, ultima caratteristica degna di essere notata: per una volta, i sopratitoli in francese apparivano sulla scenografia stessa, sullo schermo in fondo al palcoscenico o sui piedistalli mobili quando venivano sollevati; e i sopratitoli seguivano i cantanti mentre si muovevano. Questo permetteva di seguire facilmente la trama… senza farsi venire il torcicollo a forza di guardare lo schermo appollaiato sopra il palco!

Recensione di Vincent Cipriani
Opéra de Paris – Opéra Bastille 25 marzo 2025
Immagini (c) Benoite Fanton OnP

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FRANÇAIS

Le 30 avril 1902 résonnait pour la première fois, sur la scène de l’Opéra Comique de Paris, la musique de Pelléas et Mélisande, unique opéra de Debussy. Quel bouleversement esthétique ! Il faut dire qu’à bien des égards, cet opéra bouscule les codes du genre en vigueur à l’orée du XXe siècle : une musique de l’inexprimable, sans grand air virtuose, où le rythme du chant est consciencieusement calqué sur celui du langage parlé ; une impression générale de flou, d’indéterminé, de mystère… Tout cela a généré une des plus retentissantes controverses artistiques – à tel point que le directeur du Conservatoire de Paris, Théodore Dubois, a interdit à ses élèves d’assister aux représentations !

Pelléas et Mélisande, c’est l’histoire de Tristan et Yseult, revisitée par Maurice Maeterlinck. Alors qu’il chassait dans la forêt, le prince Golaud rencontre Mélisande, qu’il décide d’épouser, sans même savoir d’où elle vient ni qui elle est. Il l’emmène alors au château du roi Arkel, son grand-père. Là, elle rencontre Pelléas, le demi-frère de Golaud, et en tombe amoureuse. Golaud finit par s’apercevoir de cet amour et tue Pelléas.

123 ans plus tard, malgré un début quelque peu difficile – Sabine Devielhe est tombée malade fin février, ce qui a causé l’annulation de l’avant-première jeunes – c’est donc cette même œuvre qui a résonné dans l’amphithéâtre de l’Opéra Bastille du 28 février au 27 mars, sous la direction d’Antonello Manacorda, dans une nouvelle production dont la mise en scène est signée Wajdi Mouawad.

Le spectacle commence sans les traditionnels applaudissements lorsque le chef entre dans la fosse : les lumières s’éteignent dans la salle alors que le chef n’est pas encore arrivé. Le rideau se lève, et dans la pénombre, l’image d’une forêt apparaît très progressivement. On entrevoit une bête avec de gros poils hirsutes traverser la scène – la bête poursuivie par Golaud – puis, seulement, la musique commence, semblant naître des entrailles de cette forêt. Il est donc tout à fait bienvenu pour cette œuvre que le chef soit entré dans la fosse sans même qu’on le remarque : cela permet d’entrer en douceur dans la discrétion et la subtilité de l’opéra, sans cette bruyante effusion initiale d’applaudissements.

L’élément clé du décor, réalisé par Emmanuel Clolus, est un grand écran sur lequel sont projetées des images et vidéos (signées par Stéphanie Jasmin), servant de toile de fond tout au long du spectacle. Petite particularité : l’écran est en réalité constitué d’une multitude de cordelettes, fines bandes verticales élastiques (qui représentent notamment les longs cheveux de Mélisande) ; les chanteurs effectuent certaines de leurs entrées en traversant l’écran, après avoir écarté les bandelettes de leurs mains.

Juste devant l’écran se trouvent côte à côte trois socles mobiles, s’élevant jusqu’à un mètre au-dessus du reste de la scène, à des hauteurs différentes ; ils évoquent tantôt un balcon, une estrade ou un escalier. À peu près au milieu de la scène se trouve un grand bassin en forme d’œil, représentant tantôt la Fontaine des Aveugles, tantôt la grotte où Golaud et Pelléas tentent de récupérer la bague de Mélisande. Ce bassin est progressivement rempli, tout au long de l’œuvre, par une grande statue de cheval renversé (figurant la chute de cheval de Golaud) et par des carcasses d’animaux, apportées au fur et à mesure par des chasseurs, si bien qu’à la fin du spectacle, le bassin est complètement rempli – comme pour montrer la putréfaction progressive du château, la mort omniprésente, ainsi que le renvoi constant à une forme d’animalité.

«Il faut que ça soit presque transparent, qu’on soit à la limite de la dématérialisation pour faire entendre la voix et les corps des chanteurs», a expliqué Wajdi Mouawad pour décrire ses choix de mise en scène. De fait, les images projetées sur l’écran ne montrent jamais de château : on voit se succéder des images de nature sauvage, des vues aériennes de forêts, des visions aquatiques et sous-marines. Il n’y a aucun espace intérieur, aucune intention humaine, aucune construction artificielle dans ces prises de vue, mais seulement une nature à l’état brut, immaculée et pure. Ainsi, par exemple, la fontaine des aveugles est évoquée par les images d’une cascade naturelle – et non un bassin en pierre. Cet environnement naturel renforce l’impression de solitude, de solipsisme, avec ces personnages immergés dans cette nature brute étrangère à toute forme de civilisation.

En outre, mis à part quelques lanternes et l’épée de Golaud, l’essentiel se passe d’accessoires. Le mobilier est des plus minimalistes : le lit sur lequel est couché Golaud après sa chute, ainsi que le lit de Geneviève au cinquième acte, sont figurés par un parallélépipède noir posé sur les socles mobiles. Il est donc clair que Wajdi Mouawad a voulu gommer tout ce qui renvoie à une réalité humaine, au profit d’une dématérialisation et déshumanisation de l’environnement des personnages.

Entre les carcasses d’animaux et les projections vidéo d’une nature sauvage, les personnages eux-mêmes penchent davantage vers l’animal que vers l’humain. Lors de sa rencontre avec Golaud, Mélisande, accroupie, à quatre pattes, adopte une attitude très sauvage et animale. À la toute fin, pour symboliser la réunion dans la mort de Mélisande et Pelléas, les deux amants sont recouverts d’un manteau de fourrure et d’un masque animalier (les costumes sont d’Emmanuelle Thomas). À l’inverse, la bête qui traverse la scène juste après le lever du rideau est bipède, et apparaît étrangement humaine. La frontière entre humain et animal est donc brouillée – à croire que les pulsions et sentiments des personnages sont purement animales.

Les images projetées sur l’écran en fond donnent une coloration impressionniste à l’ensemble, une sensation de légèreté, mais ne contribuent pas vraiment à faire avancer l’action, car elles n’ont souvent pas de rapport direct avec ce que dit le livret. Par exemple, au moment où Geneviève lit à Arkel la lettre de Golaud – scène censée se dérouler à l’intérieur d’une salle du château – l’écran projette la vue aérienne d’une colline recouverte d’une forêt. Un peu plus tard, lorsque Pelléas dit voir Geneviève et Mélisande « à une fenêtre de la tour », celles-ci passent devant l’écran qui montre, une fois de plus, la vue aérienne d’une forêt automnale. Au dernier acte, censé se dérouler dans la chambre de Mélisande, on voit un fond presque entièrement blanc ; sans trop savoir ce que cela représentait, on peut penser qu’il s’agissait de neige sur un arbre.

Ce qui ressort de toutes ces images, c’est une sensation de beauté, avec ces visions d’une grande valeur esthétique, mais dont le peu de rapport à l’intrigue, et le peu de référentiel spatial fait qu’on a du mal à se prendre au jeu ; d’autant plus que les chanteurs sont bien souvent côte à côte face au public (à moins que le texte n’oblige trop directement à effectuer quelque geste), ce qui donne des allures de version de concert. Ce n’est pas nécessairement un point négatif, mais cela mérite d’être souligné : à aucun moment on ne s’imagine être au royaume d’Allemonde; on garde toujours pleine conscience, tout au long de l’œuvre, d’être assis dans une salle d’opéra.

Musicalement parlant, comme toujours à l’Opéra de Paris, l’orchestre est d’une expressivité, d’une précision et d’une justesse remarquables ; la direction d’Antonello Manacorda, tout en préservant le caractère calfeutré et intimiste de l’opéra, lui a permis de se faire à la fois enveloppant et discret – une prouesse, au vu des dimensions gigantesques de l’Opéra Bastille.

Du côté des chanteurs, la distribution est évidemment d’une immense qualité, avec Sabine Devielhe dans le rôle de Mélisande, Huw Montague Rendall dans le rôle de Pelléas, tandis que Golaud était interprété par Gordon Bintner. Comme l’orchestre, les chanteurs aussi ont su se faire discrets, et, à notre avis personnel, peut-être trop : la voix claire de Sabine Devielhe traverse l’air sans difficulté, mais les voix plus graves ont eu un peu de mal à se faire entendre, même depuis le dixième rang du parterre. Cela est dû au choix de privilégier, peut-être excessivement, les atmosphères douces et légères.

Que dire des voix de Huw Montague Rendall et de Gordon Bintner, si ce n’est que tous les éloges qu’on leur adresse sont absolument mérités ? Quant aux seconds rôles, ils sont aussi satisfaisants dans l’ensemble, avec notamment un remarquable Arkel incarné par Jean Teitgen, au timbre d’une grande beauté, capable de souligner toute l’ambiguïté de son personnage.

Enfin, dernier élément valant la peine d’être mentionné : pour une fois, les surtitres en français apparaissaient sur le décor lui-même, sur l’écran en fond de scène, ou sur les socles mobiles lorsqu’ils étaient surélevés ; et les surtitres suivaient les chanteurs au gré de leurs déplacements. Cela permettait de suivre aisément l’intrigue… sans se faire de torticolis en levant la tête pour regarder l’écran perché au-dessus de la scène !

Critique de Vincent Cipriani
Opéra de Paris – Opéra Bastille 25 mars 2025
Images (c) Benoite Fanton OnP

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