Uno scherzo riuscito talmente bene da essere immortalato nella Divina Commedia. Il “gran padre Dante” spedisce all’inferno (XXX Canto) l’artefice della “bizzarria”, che si consola chiedendo al pubblico “l’attenuante” di un applauso, al termine dell’opera a lui dedicata da Giacomo Puccini e dal librettista Giovacchino Forzano.
“Gianni Schicchi” si sostituisce al defunto Buoso Donati per stilare un nuovo testamento ed evitare che la ricca eredità vada ai frati. Astutamente egli promette lasciti al parentado invece intesta tutto a se stesso, con il fine di dare una dote alla figlia Lauretta e permetterle di sposare l’amato Rinuccio. Gli avidi cinici insensibili parenti non possono ribellarsi all’inganno per timore di incappare nella giustizia, che punisce la falsità con il taglio della mano e con l’esilio: “Addio, Firenze, addio, cielo divino, io ti saluto con questo moncherino, e vo’ randagio come un Ghibellino” cantano in coro i cospiratori, paventando il peggio.
L’azione scenica è stata posticipata dalla Firenze del 1299 al Novecento, nell’allestimento creato per il Teatro Regio di Torino con la regia di Vittorio Borrelli, ripresa da Matteo Anselmi per la rappresentazione al Filarmonico di Verona come secondo titolo di un insolito dittico. La regia, che si è avvalsa dei costumi di Laura Viglione e delle scenografie di Saverio Santoliquido e Claudia Boasso, ha seguito uno svolgimento lineare, di gusto, dove i personaggi, ben differenziati caratterialmente, hanno prima di tutto contribuito a definire una situazione, un contesto. Parenti serpenti, come sono stati definiti in un film di Mario Monicelli, che hanno incarnato vizi e virtù, e invitato a ironizzare amaramente su di essi.
Gianni Schicchi è opera tanto breve quanto affollata di personaggi e gli interpreti devono possedere la capacità di agire in sinergia. Barbara Massaro era Lauretta, dolce e genuina nella celeberrima aria “Oh mio babbino caro”. Il suo innamorato Rinuccio aveva i pregevoli mezzi vocali di Matteo Mezzaro. Contagiosa la vis comica di Rossana Rinaldi, l’intransigente madre Zita. Mario Luperi ha efficacemente reso l’autorevolezza inconsistente di Simone. Affiatati e dalle spiccate doti di interazione Elisabetta Zizzo, Nella; Ugo Tarquini Gherardo; Dario Giorgelé, Betto di Signa; Roberto Accurso, Marco; Alice Marini, La Ciesca. Inoltre Alessandro Reischitz, Pinellino calzolaio; Nicolò Rigano, Guccio tintore; Alessandro Busi, Spinelloccio/Ser Amantio di Nicolao. Un applauso meritato al giovanissimo Leonardo Vargas Aguilar, Gherardino,e al mimo che impersonava il defunto Buoso, sbattuto qua e là come un sacco di patate.
A far collante al dittico, che ha imposto un notevole sbalzo temporale, il medesimo protagonista, Alessandro Luongo, dalla vocalità bella e ben gestita e dalle doti camaleontiche. Capace di declinare, avvalendosi del fraseggio accuratamente studiato e di apprezzabili doti attoriali, due diverse tipologie ironiche: quella scaltra consapevole e multisfaccettata del burbero Gianni Schicchi, in cui il baritono ha dato il meglio di sé, e quella frivola e vanagloriosa del “Maestro di cappella”.
La serata si è aperta con questo intermezzo giocoso, mai prima d’ora rappresentato al Filarmonico. L’autore del titolo – che fu uno dei cavali di battaglia del compianto Enzo Dara – è Domenico Cimarosa, anche se per alcuni studiosi si tratta di un pastiche di vari compositori; tradizione settecentesca descritta da Cesare Galla nei libretti di sala. La regista Marina Bianchi ha immerso la situazione metatearale in un’atmosfera dai colori vivaci, iniziando dai costumi (Silvia Bonetti) e dalle scene dichiaratamente recuperate nei magazzini areniani (direttore allestimenti Michele Olcese) per fronteggiare la spending review, con esiti onorevoli. Il Maestro di cappella è una gustosa presa in giro dei vezzi e dei malvezzi di un’orchestra, che non è ben chiaro se sia veramente incapace o se finga di esserlo per burlarsi del direttore. I veri componenti l’Orchestra dell’Arena di Verona erano quindi in scena in costumi e parrucche, e il loro ruolo non poteva prescindere dall’attorialità. A dirigerli, il Maestro di cappella dalle dubbie capacità musicali, che li sgridava e faceva il verso agli strumenti.
Al suo fianco, il vero direttore d’orchestra, il ventiquattrenne veronese Alessandro Bonato, che ha affrontato Cimarosa con luminosa freschezza. Mentre in Schicchi ha fatto emergere il vigore dinamico, che ha talvolta indotto le voci a “spingere”, e la propensione coerente e apprezzabile di porre in risalto i singoli strumenti. In mezzo alla indisciplinata compagnia, la regista ha collocato un gruppo di mimi/danzatori (movimenti mimici Luca Condello) a dar vita e controscene che hanno accentuato il clima parodistico.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona nella replica del 23 maggio 2019
Foto Ennevi gentilmente concesse da Fondazione Arena di Verona