In linea con il Festival della Bellezza, quella con Arturo Brachetti è stata una conversazione. Ma, in linea con lo spirito di Brachetti, la conversazione ha frequentemente assunto i contorni di uno spettacolo. Un racconto, costellato da esempi pratici, che ha ripercorso fin dalle origini le tappe della carriera straordinaria di colui che è considerato l’erede di Leopoldo Fregoli; l’unico a mantenere viva una tradizione che altrimenti sarebbe scomparsa, e a renderla attuale. Non un trasformista bensì “il” trasformista, entrato nel guinness dei primati per i più veloci cambi di costume, spesso a vista.
Nella vita privata si camuffa per diletto e per mantenere la privacy. Quando per strada o al supermarket viene riconosciuto, c’è chi lo chiama “il trasformatore della tv”, o chi gli chiede una “trasfigurazione”. Laurea honoris causa, Chevalier des Artes et des Lettres, Commendatore al merito della Repubblica italiana, l’attore e regista è un campione di simpatia, di ironia leggera ed elegante. Ripete spesso di avere sessantadue anni però credergli è impossibile. È un eterno ragazzo, nel pensiero e nel fisico, nell’entusiasmo con cui prende sul serio il suo non prendersi sul serio.
In dialogo con Marco Ongaro, “La maschera e i mille volti” parla dei trecentocinquanta personaggi interpretati, arrivando a ottanta in un’unica serata, recitando e cantando tutti i ruoli. Perché si, l’abito fa il monaco. Tutti abbiamo una veste per ogni occasione, per vivere più vite contemporaneamente: la maschera serve a esorcizzare. Non si nasce trasformisti, lo si diventa.
La storia da favola ha un incipit insolito. «Ero un bambino piccolo e sfigato, un nerd, mi gettavano nel bidone dell’immondizia per ridere». Fu messo in collegio dai Salesiani per farlo socializzare. Qui c’era il club del teatro e un prete che faceva giochi di prestigio. Per il giovane Arturo fu il primo riscatto. Don Silvio gli regalò un libro su Fregoli e da lì iniziò a volare con la fantasia. Complice anche il mitico Erminio Macario che andava a pranzo dalle suore e poi lo invitava dietro le quinte del teatro. «Quest’arte l’ho ciulata», bisogna prenderla da chi è venuto prima, spiega. Il trasformismo trae origine dalla Commedia dell’Arte, da un personaggio che si cambiava la maschera e che Brachetti reinterpreta a proprio modo con uno dei suoi cavalli di battaglia, in cui, con un cerchio di stoffa piegato a formare vari tipi di cappelli, dà vita in una manciata di minuti a venticinque personaggi. Un solo inconveniente: i copricapi inventati lì per lì scompigliano il celebre ciuffo che si sorregge con il «gel viagra». Una pettinatura diventata un trade mark, nata mentre faceva Puck nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, quando i capelli sugli occhi gli davano fastidio e li tirava su.
Creò un numero a sedici anni, poi un altro a diciotto e sbarcò a Parigi, al Paradis latin. Passò l’audizione non perché fosse il più bravo ma, si schernisce, in quanto era l’unico a cimentarsi nel genere. Per due anni eseguì il suo numero e anche sostituì chi era malato, uomo o donna che fosse. Sviluppò l’escamotage per cambiare volto in pochi secondi: disegnava il trucco, adornato di paillettes, su cerotti. Poi toglieva l’adesivo e ingoiava i brillantini.
Nello schermo giganteggia un astro opalescente, fonte di fascino spesso presente nei suoi spettacoli. A Parigi usciva in piena notte e immaginava la luna piena come fosse uno specchio, in cui vedeva gli amici e la madre che stavano al di là delle Alpi. Un proverbio cinese recita che quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito. Brachetti guardava sia la luna che il dito.
Il ricordo passa a Paolo Poli, un grande maestro che soleva terminare i suoi spettacoli con poesie di autori classici a carattere erotico. Richiesto a gran voce dal pubblico Brachetti recita «un sonetto porcello, ma porcello tanto» di Pietro Aretino. Segue un numero basato su una bacchetta invisibile che si trasforma in mille oggetti proprio come il cappello di poco prima. Poi fa la stessa cosa con un tovagliolo.
La serata si avvia alla conclusione. Una considerazione amara sui giovani, che da quando hanno internet copiano e hanno perso l’immaginazione, e il pensiero corre a Fellini, che lavorava con la fantasia. È noto che le sue realtà fossero inventate: la neve era di coriandoli, il mare di teli di plastica mossi da persone. A un altro maestro dell’illusione, Tim Burton, è dedicato il must del repertorio. Con le sole dita su una manciata di sabbia Brachetti disegna figure effimere, in movimento. Perché «la fantasia è meglio quando si usano cose povere per inventare quelle grandi». La bellezza è come la perfezione: la si insegue tutta la vita e per fortuna non la si raggiunge mai completamente. Altrimenti non ci sarebbe il viaggio, non ci sarebbe il sogno.
Recensione di Maria Luisa Abate
Contributi fotografici: MiLùMediA for DeArtes
Visto al Teatro Romano di Verona – Festival della Bellezza, il 12 giugno 2019