Un’unica stella brillava nel cielo velato, come se le consorelle e la luna si fossero fatte rispettosamente in disparte, non potendo competere in lucentezza con la nuova arrivata. Nella sera in cui debuttava all’Arena di Verona l’ultimo capolavoro di Franco Zeffirelli, a sei giorni dalla sua scomparsa, la verità meteorologica non poteva che assumere una spiegazione poetica.
La traviata, la nona nella carriera del Maestro, ha compendiato e ulteriormente sviluppato l’incessante lavoro di elaborazione sul soggetto di Dumas, codificato in bozzetti e spunti che attendevano nei cassetti da una decina d’anni. Zeffirelli purtroppo, per il peggiorare delle condizioni di salute, non ha potuto dare il promesso tocco finale alla regia. Ciononostante è emersa la sua straordinaria capacità di tradurre sulla scena i sentimenti evocati dalla musica, di dar vita a quell’unisono visivo-uditivo che, prima di ogni altro elemento, determina la riuscita di un allestimento. Quest’ultimo, imponente e maestoso nelle scenografie di classica bellezza. Ripetiamo ciò che sosteniamo da sempre: Zeffirelli è come una borsetta di Chanel, senza tempo, sempre di moda, di universale eleganza. E ogni volta capace di dire qualcosa. Il che, nel panorama odierno, non è scontato come dovrebbe. Le idee di Zeffirelli non sono invenzioni registiche fini a se stesse, ma frutto del suo mettersi umilmente a disposizione dell’autore, filtrandolo attraverso l’ottica del proprio genio con rispetto, da vero signore del teatro.
Nel silenzio, i mesti rintocchi di una campana a morto. Sul preludio ha fatto il suo ingresso il carro funebre con le spoglie di Violetta (che ha cagionato un groppo in gola, pensando al Maestro), una carrozza nera con neri pennacchi, trainata da un cavallo nero. Dietro a esso, una processione sparuta, con il prete benedicente e le poche persone rimaste vicine alla Valery. In disparte, era Alfredo, forse solamente in quell’istante resosi conto di avere per sempre perduto il suo amore, di averlo sprecato in vita e compreso troppo tardi. L’opera è iniziata con questo flash back di reminiscenza cinematografica, che ha trasferito la vicenda nella mestizia nostalgica del ricordo.
Lo spaccato del palazzo parigino di Violetta Valery era suddiviso su due piani: quello sottostante, il salone aperto agli ospiti, era l’ambito della realtà, mentre nelle stanze private soprastanti albergava il pensiero, l’interiorità, l’immaginario. Ciò che ha conferito un profondo significato al tutto, erano le due colonne laterali che simulavano la barcaccia di un teatro tradizionale. Molto più di un efficace escamotage (inventato anni or sono dallo stesso Maestro) per dotare l’anfiteatro di un sipario: i palchi teatrali hanno rivestito funzione metaforica. Zeffirelli ha rappresentato il dramma della vita, ha messo in scena, oltre il sipario aperto, l’amarezza delle speranze deluse, delle rinunce e dei sacrifici vani, dalla gioia spenta nel dolore de La Dame aux camélias, regina della mondanità che terminerà i suoi giorni dimenticata da tutti.
Già nel primo atto, quando la Traviata ha deciso di intraprendere il percorso di redenzione accettando l’amore di Alfredo, lui l’ha osservata dai palchi con il distacco di uno spettatore. Il sentimento è sbocciato in un contesto premonitore: lui era già lontano e lei era già sola. Scendendo le scale, Violetta ha lasciato la sfera personale per entrare in quella pubblica dove le speranze non erano più tali e, fuori dalle possibilità decisionali dei protagonisti, avevano assunto l’ineluttabilità del destino.
Nel secondo atto, nella villa di campagna rappresentata da una grande serra, anch’essa cinta da due tendoni verdi, c’era una voliera di colombe bianche e Violetta ne ha liberata una sola, identificando in quel gesto le proprie aspirazioni.
Il cambio di scena “a vista” ha scatenato meritati applausi alle maestranze tecniche, con il direttore degli allestimenti Michele Olcese, e l’ennesimo “bravo Franco” gridato dal pubblico.
L’abbondanza zeffirelliana è esplosa nella festa in maschera con le zingarelle e i toreri verdiani, e anche con saltimbanchi e giocolieri, ingresso di lanterne e sparo di lustrini. I costumi di Maurizio Millenotti erano di una fantasiosità vivace e storicamente credibile, come tutto l’allestimento.
L’ultimo atto si è rivelato il regno della solitudine, della desolazione. Le luci di Paolo Mazzon si sono abbassate e nella stanza, chiusa da un pesante tendaggio e con una specchiera poggiata al suolo, la mente allucinata della moribonda ha fatto materializzare gli echi del carnevale, ha rievocato per un fugace attimo le gioie di un tempo felice. Il letto ai cui piedi sarebbe morta di lì a poco, era collocato al piano sottostante: quello della realtà, l’unica presenza rimasta a farle compagnia in tutta la sua crudezza.
Daniel Oren, con gesto ancor più ampio del consueto, ha alternato momenti distesi a slanci di impetuoso lirismo, tenendo saldamente in pugno il palco e l’Orchestra areniana, con la quale il feeling è consolidato. Sugli applausi finali, ha improvvisato un insolito bis del celebre brindisi, dirigendo dal proscenio artisti e pubblico, restio ad abbandonare platea e gradinate. Eccellente la prova di Aleksandra Kurzak, che ha utilizzato al meglio sia i propri mezzi sia l’insidioso spazio areniano, senza mai forzare l’emissione e lasciando correre la voce, splendidamente. Tra bei legati, smorzature vellutate e rigogliose pienezze, ha saputo con maestria far diventare un filo il canto quando a prevalere, nel personaggio, è stata la disperazione. Una Violetta di toccante umanità verdiana e per Zeffirelli la summa delle molte sfaccettature della femminilità, che il soprano ha magistralmente offuscata, anche nei momenti lieti, con una vena di tristezza, con un presagio di sventura.
Apprezzabile sotto il profilo interpretativo nei panni di Alfredo, Pavel Petrov, giovane tenore interessante e di spiccata musicalità, destinato a crescere. Sempre in una forma che ha dell’incredibile, il decano della compagnia di canto, Leo Nucci, nell’interpretazione giostrata ai massimi livelli espressivi di papà Germont dal carattere correttamente duro, rigido, intransigente. Due presenze di lusso in straordinari camei: Daniela Mazzucato, Annina, e Alessandra Volpe, Flora. Ottimo il restante cast: il Gastone di Carlo Bosi; il Barone Douphol di Gianfranco Montresor; Giuseppe di Max René Cosotti. Infine Daniel Giulianini, Marchese d’Obigny; Romano Dal Zovo, Dottor Grenvil; Stefano Rinaldi Miliani, Domestico e Commissionario. Di razza i primi ballerini Petra Conti e Giuseppe Picone, autore anche delle coreografie ideate per il corpo di ballo, coordinato da Gaetano Petrosino. Il Coro istruito da Vito Lombardi si è rivelato particolarmente attento all’indispensabile aspetto emozionale.
È d’obbligo, in questa occasione, tributare applausi speciali. Il primo alla generosa modestia, nel non apparire ufficialmente, del vice Direttore Artistico Stefano Trespidi, longa manus scenica del Maestro assieme all’assistente storico di quest’ultimo Massimo Luconi, i quali hanno concretizzato la concezione registica come meglio non si sarebbe potuto fare, vista la situazione oggettiva.
Un altro applauso va al “carrozzone” televisivo, che in pochissimi giorni ha fatto funzionare alla perfezione la titanica macchina della diretta in mondovisione con tanto di ospiti vip, senza alcuna invasività per gli spettatori a Verona, che non ne hanno quasi percepito la presenza potendo godere appieno dell’opera.
Prima dell’inizio, mentre l’ “ala” dell’anfiteatro romano si tingeva di bianco rosso e verde, Coro e Orchestra di Fondazione Arena hanno intonato l’Inno d’Italia dispiegando un tricolore in omaggio al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ai Ministri che hanno assistito dal palco d’onore.
Ultimo ma non ultimo, un plauso al Sovrintendente e Direttore Artistico di Fondazione Arena Cecilia Gasdia, che ha rispettosamente ceduto la parola allo stesso protagonista cui era dedicata la serata. Infatti, prima che la recita avesse inizio, uno schermo ha trasmesso brevi spezzoni in cui il Maestro lodava le nuove possibilità tecniche e di luci che permettono di dare migliore veste all’invenzione creativa. L’intervento filmato si è concluso con un bacio inviato alla Callas con la quale Zeffirelli, giovanissimo, debuttò nel mondo dell’opera: All right Maria, I’m going.
CAST ALTERNATIVO
Sold-out la recita del 1 agosto, quasi una seconda première per le molte presenze prestigiose, in serata unica all’Arena, iniziando dal direttore Marco Armiliato. Anche se con prove presumibilmente stringate, l’orchestra areniana ha saputo duttilmente recepire le indicazioni del podio, impartite con gesto ampio e arioso, con respiri che hanno lasciato spazio all’espressività dei personaggi come descritti nella partitura verdiana, affrontata con rigore congiunto a passionalità.
Lisette Oropesa ha rivelato doti d’eccellenza per il timbro ricco, i bei legati, le soavi mezze voci, e le sfaccettature emozionali che hanno tornito un’interpretazione in cui tutto, dal fraseggio ai colori, era splendidamente definito in ogni dettaglio, e venato dalla commovente solitudine interiore della Valery. Altro merito del soprano statunitense, aver fatto emergere tratti intimistici avendo accanto la presenza esuberante tout court di Vittorio Grigolo. Il tenore, si sa, ama le contaminazioni ed è osannato da pubblici eterogenei, lirici, pop-rock e televisivi. Nel suo solo spettacolo veronese di quest’anno, è emersa la personalità simpaticamente esplosiva. Ha calcato il palco con generosa sovrabbondanza nella recitazione e nel canto, supportato dalla bella vocalità che gli ha donato madre natura. Il pubblico è andato in visibilio per lui come per il differente approccio di Plácido Domingo. Il quale ha regalato una prova improntata all’eleganza, alla classe, allo stile, dimostrandosi ancora una volta raffinato nel fraseggio, aristocratico nella linea stilistica, magistrale nell’utilizzo della tecnica e di eccelsa profondità nello sviscerare le complesse sfaccettature del personaggio, che ha reso per nulla insensibile come solitamente viene presentato. Anche per Domingo, acclamato fin dal suo ingresso in scena, un’unicum nel ruolo baritonale di Papà Germont, nell’ambito della settimana di celebrazioni per festeggiare i suoi cinquant’anni di collaborazione con l’Arena. Daniela Mazzucato ha rinnovato il risultato ottimo in quello che per lei è un ruolo/cameo, di Annina. Di rilievo gli apporti di Carlo Bosi, Gastone di Letorières; Clarissa Leonardi incisiva Flora; Gianfranco Montresor,solido Barone Douphol; Max René Cosotti, Giuseppe; Daniel Giulianini, Marchese d’Obigny; Stefano Rinaldi Miliani, Domestico e Commissionario, infine il Dottor Grenvil del giovane basso Alessandro Spina.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 21 giugno 2019 e il 1 agosto 2019
Contributi fotografici: ©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona