Spurgato dalle digressioni scientifiche e naturalistiche presenti nel romanzo di Melville, “Moby Dick” è stato condensato alla sua essenzialità nell’adattamento compiuto da Franco Branciaroli, anche interprete nel ruolo del Capitano Achab. A timonare la regia Luca Lazzareschi, presente pure nelle vesti del primo ufficiale Starbuck, nell’allestimento debuttato in prima nazionale a Verona nell’ambito del “Festival shakespeariano”, che quasi ogni anno presenta una digressione verso altri autori. Una messa in scena in cui la descrittività, solo suggerita, ondeggia tra l’ambito del reale e quello della metafora. L’utilizzo di canzoni marinaresche, attinte al primo capitolo del testo letterario, non alleggerisce l’atmosfera immota e in tensione, anzi, per contrasto, la incupisce ulteriormente. Branciaroli privilegia il teatro di parola e questa assume funzione evocatrice. L’eloquio è giostrato su chiaroscuri che paiono anch’essi soggetti ai mutamenti meteorologici: diventa nasale quando Achab urla ordini come fossero muggiti del mare e stridulo quando si erge come una folata di vento a comandante supremo; infine si fa profondo mentre la sua mente è risucchiata nel gorgo delle manie che rasentano l’alienazione.
Lo schermo sul fondo rimanda a un mare opaco che, sia placido sia agitato dal fortunale, si confonde con il cielo. Una suggestione speciale l’ha regalata il Teatro Romano, sul quale le nubi hanno iniziato a lampeggiare esattamente quando ha avuto inizio la rappresentazione della burrasca, rendendo indistinguibili fulmini ed effetti di luce. Del resto, l’accavallarsi tra la terrenità del condottiero e la sua spasmodica brama di innalzarsi a dio pagano – per la ciurma e per la natura che vorrebbe dominare – è ben presente in Melville. Il regista Lazzareschi aggiunge una ulteriore sovrapposizione tra illustrazione e teatralità. Una costruzione a torretta simula l’albero maestro, con funzioni di pulpito; un cuneo favorisce i saliscendi del Pequod e i singoli elementi di una passerella – tecnicamente chiamati “praticabili” – vengono smontati e rimontati a formare ponti, panche, scialuppe.
Nelle note di regia si legge che il Capitano Achab è simile al Prospero de “La tempesta” shakespeariana, pur non possedendone le doti magiche. In Melville infatti si ritrovano figure ispirate al Bardo. Primo fra tutti il “fool” Pip, l’altro volto della pazzia di cui è preda Achab, spensierata quella dell’uno, ossessiva quella dell’altro. Pip è affidato alla bravissima Valentina Violo, che dà voce anche ad Ariel, di evidente matrice shakespeariana. È palese il richiamo alla Bibbia in Ismaele, l’eccellente Gianluca Gobbi: il solo marinaio che non perirà e potrà raccontare questa storia, tratto in salvo dalla Rachele, nave alla ricerca dei marinai dispersi e, con essi, dell’essenza che gli uomini spesso smarriscono nel corso della vita.
Ma qui c’è molto di più perché l’attore amplifica la forza allegorica di Melville. Nella sua interpretazione, dotta e scrupolosa, costruita sui contrasti, si ravvisano la voglia di ribellione di Prometeo e l’anima mefistofelica di Faust. È l’irrefrenabile desiderio di viaggiare di Ulisse, seguendo l’attrazione che esercita l’ignoto, ed è il Drogo di Buzzati, che vive il tempo immobile dell’attesa nella speranza illusoria di un riscatto. È la cecità autoinflitta di Edipo, che peregrina alla ricerca di una verità che si tramuta in dramma. È sete di vendetta, contro il destino e contro il Caos, ed è la paura sulla quale far leva per tiranneggiare l’equipaggio di sottomessi (Sergio Basile, Luigi Mezzanotte, Francesco Migliaccio, Marko Bukaqeja, Edoardo Rivoira, Jacopo Morra).
Branciaroli/Achab è un dio pagano senza religione, è la notte ed è la tempesta. Egli incarna il Male in tutta la sua corvina crudezza, operando uno scambio di ruoli. Il Male, infatti, è nel romanzo rappresentato dal capodoglio albino che insegue le prede incurante degli arpioni che gli trafiggono il dorso. Ma Achab, essere demoniaco, cannibalizza il nemico acquatico che gli ha divorato una gamba e la rimpiazza con una protesi fatta con ossa di balena. La camminata normale del protagonista, non zoppicante come ci si aspetterebbe dalla menomazione fisica del personaggio, fa immaginare che il Male si sia trasferito dall’uno all’altro, rendendo uguali vittima e carnefice, entrambi impegnati nella lotta tra la vita e la morte.
Il Leviatano Moby Dick racchiude in sé le paure indispensabili all’uomo, che non ne può fare a meno perché sente la necessità di un alcunché da superare, di un avversario contro cui combattere. Un antagonista indefinito come l’abisso marino che, inghiottendolo, ne consacra l’impossibilità di redenzione.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano di Verona – 71° Festival shakespeariano – Estate Teatrale Veronese – il 6 luglio 2019