Dopo lunga agognante attesa, eccole, le tre serate che i fortunati presenti non dimenticheranno e che resteranno nell’albo d’oro della lirica. Le ricorderanno gli esperti melomani e anche quei turisti trovatisi lì per caso, inconsapevoli di assistere allo storico giro di boa che, grazie alla rotta tracciata con determinazione dal Sovrintendente e Direttore Artistico Cecilia Gasdia, ha riportato l’Arena di Verona ai fasti del passato glorioso, a competere in qualità con i migliori teatri internazionali. Il Trovatore infatti ha visto il debutto su questo palcoscenico di Anna Netrebko, un nome che da solo dice tutto.
L’allestimento era quello che Franco Zeffirelli creò nel 2001, unanimemente riconosciuto come uno dei suoi più riusciti capolavori, già ripreso in altre cinque stagioni. Maestose e intelligenti, musicalmente e drammaturgicamente coerenti, la regia e la scenografia del Maestro risolvono una delle più difficili sfide che l’anfiteatro presenti, facendo convivere momenti intimistici con la grandiosità visiva. E generando il cosiddetto “effetto wow”, che Zeffirelli realizza con un’eleganza raramente eguagliata. Spettacolarità raffinata e non gratuita, sempre funzionale alla musica e al libretto, tratto dal dramma El trobador di Antonio Garcia Gutiérrez dal poeta Salvadore Cammarano e, dopo la sua morte improvvisa, rifinito da Leone Emanuele Bardare e dallo stesso Giuseppe Verdi.
Il fascino ammaliatore creato da Zeffirelli è capace di rinnovarsi con freschezza, suscitando sempre nuove emozioni. Ai lati del proscenio, due enormi statue di guerrieri in armatura intenti a uccidere il nemico durante spietati duelli corpo a corpo. Al centro, a evocare il palazzo dell’Aljaferia a Saragozza, tre torrioni composti da armi e scudi, sormontati da trofei, lance e alabarde, vessilli e insegne. Il colore e la consistenza del metallo si confondono con la pietra che circonda il maniero. Il freddo grigio si stempera nei romantici toni blu del notturno d’amore e si accende di bagliori rossastri, di lingue incandescenti del sangue e della guerra così come della passione, in questa vicenda in cui amore e rivalità sono fusi assieme in un rogo: nell’orrendo foco della pira; nella vampa che stride dove furono arsi la madre dell’abietta zingara Azucena e un bimbo innocente; nell’amorosa fiamma; nel foco orribile che brucia in petto a Leonora. Abbondano, nel disegno luci, gli elementi che rimandano all’ardere dei sentimenti, affettuosi o conflittuali, e alla rovente caratterialità dei personaggi.
Due i coup de théâtre, dapprima quando l’ambientazione trasmuta a vista nell’aranciato accampamento gitano; poi, quando Leonora sta per prendere i voti, la scura torre centrale si apre rivelando al suo interno una Cattedrale gotica abbagliante d’oro, successivamente richiusa su se stessa divenendo tetro carcere. A coronare il tutto, sfilate di soldati con bandiere e stendardi, cavalieri in groppa a destrieri scalpitanti, combattimenti a fil di spada resi realistici dal maestro d’armi Renzo Musumeci Greco, pie monache recanti ceri, con la preziosità dei tessuti dei costumi d’epoca di Raimonda Gaetani. Inoltre i balli gitani coreografati da El Camborio e ripresi da Lucia Real per il Corpo di ballo coordinato da Gaetano Petrosino, sulle danze composte da Verdi per la versione francese. Finale con la variante zeffirelliana che prevede il suicidio di Azucena, culmine della disperazione e del tormento di colei che è il motore dell’intera vicenda.
Precisione nei tempi spesso dilatati, correttezza di approccio alla tessitura con i tagli riaperti e i “da capo” indicati da Verdi, meticoloso sostegno al palco da parte di Pier Giorgio Morandi, sul podio della valente Orchestra areniana. Tutti i cast alternatisi nelle varie repliche presentavano nomi di prima grandezza.
È spiccata la presenza, nelle prime tre recite, di Anna Netrebko, osannata in tutto il mondo nel ruolo di Leonora, figura assieme angelica ed eroica. Il soprano russo ha compreso a pelle come sfruttare al meglio l’acustica dell’anfiteatro, come far correre la voce calda e rilucente. Regina del belcanto, ha dosato le forze e non ha concesso bis. Dopo l’esordio straordinario benché prudente di “Tacea la notte placida”, nel quarto atto la zampata della leonessa, quella che proietta i numeri uno a un gradino ancora superiore. Sì, perché Netrebko ha regalato un ultimo atto indimenticabile, da brividi, da pelle d’oca, da subbuglio del cuore e dello stomaco.
Nel silenzio (si pensi ai numeri dell’Arena sold out) con l’aria “D’amor sull’ali rosee” la Diva ha con agilità spiccato il volo d’usignolo per planare leggiadra su un arcobaleno di colori interpretativi scintillanti, corrispondenti a un caleidoscopio emozionale sfociato nel commovente Miserere, dopo il quale il pubblico è esploso in un interminabile applauso a più riprese. Tecnica e sentimento, nello sfoggio di tinte scure vellutate, di ceselli luminosi, di torniture levigate, di mezze voci impalpabili e di filati eterei, più che sublimi, che hanno sancito ancora una volta la grandezza della cantante e dell’interprete.
Al suo fianco, compagno sulla scena e nella vita, il tenore azero Yusif Eyvazov in una prova del tutto convincente nelle vesti del trovatore Manrico. Dizione eccellente, spiccata musicalità, bella linea espressiva, appassionato negli slanci sia eroici che romantici, dal fraseggio consapevole. E uno squillo sicuro, emerso nel famoso do di petto “Di quella pira” (non bissato) preceduto da un toccante, veramente ben eseguito, “Ah si, ben mio coll’essere…”. Non ultima, la presenza scenica notevole, comprendente un tratto in groppa al cavallo.
Ha dato in questa circostanza l’addio a un ruolo che l’ha resa celebre – tra tutti al Met – il mezzosoprano Dolora Zajick, Azucena di lunga esperienza, dall’approccio sapiente al personaggio, vendicativo eppure capace di palpabile comunicativa.
Anche Luca Salsi è artista acclamato sui palcoscenici più prestigiosi per la padronanza tecnica e la solidità della voce, spiccatamente verdiana. Il baritono è stato un Conte di Luna affascinante quanto scaltro e impietoso, un autentico rivale di Manrico. Il giovane basso Riccardo Fassi si è egregiamente destreggiato nel ruolo di Ferrando e a lui si spalancano le porte di una carriera in ascesa. Una certezza, il Ruiz di Carlo Bosi. Molto bene Elisabetta Zizzo, Ines; Dario Giorgelé, Vecchio Zingaro; Antonello Ceron, Messo. Musicalmente e scenicamente adeguato all’importanza del cast, il Coro areniano istruito da Vito Lombardi.
Durante gli applausi conclusivi, accanto ai protagonisti sulla ribalta, gli schermi serviti a indicare le parole hanno rimandato l’immagine sorridente del Maestro Zeffirelli, scomparso pochi giorni prima dell’apertura della Stagione areniana.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 4 luglio 2019
©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona